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Si chiama Gilles. Ha fondato una casa per chi non l’ha. Ha fatto il ponte tra la sua storia e i ragazzi di strada che raccoglie accanto agli hotel di Niamey. Passa di notte e poi il giorno seguente. Li mette in casa e assieme fanno famiglia, quella che hanno perduta. Arrivano dai villaggi attratti dalle luci della città. Sua madre l’ha atteso otto anni prima di rivederlo. Era l’unica a credere che era ancora  vivo. Per i fratelli e soprattutto per il padre, Gilles era morto sulla strada. Un prete e poi un vescovo l’hanno aiutato a tornare a scuola e fare fiducia alla vita. Era il settimo figlio della famiglia e non si intendeva col padre. A causa sua la madre era battuta e un mattino, quando tutti dormivano, Gilles è scappato da casa.Sa cosa vuol dire rompre i ponti con la famiglia. Inizia a piangere dal ricordo per l’attesa soffferta di sua madre. Il fragile ponte di Niamey si chiama Gilles, immigrato dal Togo.

Poi c’è il ponte Kennedy, ponte antico se ce n’è, che scavalca il fiume che scorre verso il sud. Lontano un paio di kilometri si stende l’altro ponte, quello dell’amicizia coi cinesi che in Africa fanno affari chiavi in mano. Ora c’è anche l’hotel cinese la cui scritta è tutta da immaginare. All’ingresso c’è gente armata che protegge la sicurezza di chi osa passare la barriera. Dal ponte al muro cinese ci sono solo alcune centinaia di metri. A separarli un semaforo che solo quando è giallo si fa rispettare. Il terzo ponte sul fiume è in progetto e bisognerà attendere la prossima repubblica per iniziarlo. Gli altri, invece, sono in cantiere e attraversano il paese. Di ponti il Niger ne ha vari. Uno di questi è riservato ai migranti. Va diretto fino a Malta dove la sorte è prezzolata tra campi di identificazione e deportazioni pagate al mittente. Un ponte lungo migliaia di nomi e di silenzi.

Collega l’Atlantico col Mediterraneo. È il punto più lungo mai immaginato. Da una costa all’altra, passando dal deserto e dalle dogane dove il libero commercio dei poliziotti è assicurato. Ora è persino consigliato spogliare, rubare, minacciare e imprigionare i migranti. A parole hanno tutti contro e nella realtà non ci fossero bisognerebbe inventarli. Città morte rifioriscono e cantieri senza manodopera fanno turni anche di domenica. Foraggiano le dogane e i giustificano i controlli. Non parliamo delle compagnie di trasporto e dei locandieri, che assicurano i transiti. Le case informali di tolleranza hanno nouve emozioni da proporre ai clienti del posto e a quelli occasionali. Piovono milioni per creare industrie per scoraggiare i viaggi e agenzie che sui migranti si arricchiscono.  Anche l’Unione Europea imbastisce su di loro progetti senza inizio e soprattutto senza fine.      

Non parliamo dei politici locali per i quali la migrazione è una manna. Assordante il silenzio per i drammi dei giovani che fuggono dalla disperazione e dall’illusione. Esportatori di mano d’opera con meno problemi da risolvere per i governi. Le rimesse aiutano a compiere quanto sparisce per la corruzione. Il ponte adesso, che si definisce, è quello aereo. Pensato per i rimpatri che assomigliano a deportazioni assistite. Un ponte che va a ristroso rispetto all’altro fatto di sabbia, vento e anni di esilio. Tra i due sboccia il fragile ponte che si chiama Gilles, immigrato del Togo.

  • MAURO ARMANINO.
  • Niamey, novembre 2015.


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