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MISSIONE IN ITALIA / UN INTERVENTO DI PADRE A.B. SIMONI

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L’articolo Le attese del vescovo di Roma di Franco Ferrari, apparso su “Missione Oggi” (n. 2 – febbraio/marzo) ha dato spunto a p. Alberto Bruno Simoni del mensile “Koinonia” (Pistoia) per una riflessione sul tema missione col titolo C’è chi si arma… e c’è chi parte (Koinonia-Forum n. 480 del 29 aprile), che riportiamo qui di seguito:

Cerco di tradurre in parole

i pensieri che mi accompagnano e si depositano nel mio animo tutte le volte che sento e che leggo di chiesa, di evangelizzazione e di pastorale per voce di addetti, esperti, operatori e pastori vari, riportandone l’impressione di un avvitamento su se stessi sempre più vorticoso. La lettura di quanto scrive Franco Ferrari per “Missione Oggi” (e poi nel sito “Viandanti”) ha in me l’effetto di riportare a galla queste riflessioni carsiche. Se le ripropongo non è per portare acqua al mulino delle parole, ma perché chi ha orecchi per intendere intenda!

Ma perché porta a tutto questo proprio il quadro d’insieme che Franco Ferrari presenta? Proprio perché è lucido ed esauriente e ci offre la mappa dei percorsi che la chiesa con Papa Francesco sta tracciando. È pur sempre una mappa accompagnata da propositi e buone intenzioni, indicativa di istanze ed urgenze cicliche, che si ripresentano con parole diverse ad ogni nuova stagione. Ma rimane il rischio che questo inesauribile gioco verbale diventi nominalistico e non faccia che dilazionare la ricerca più radicale di processi risolutivi più o meno abortiti in tutti questi anni. Per questo devo dire che pur rallegrandomi di tante aperture e novità, non riesco ad entusia-smarmi più di tanto per le innumerevoli variazioni su un tema che dovrebbe finalmente cambiare di tono. Di qui una certa diffidenza e circospezione, pur nell’ascolto e nella condivisione con riserva.

Sarà anche per le tante bandiere che ho visto agitare e i tanti gridi di vittoria che ho sentito risuonare, per ritrovarsi poi sempre al punto di partenza a lanciare nuove campagne riformiste: infatti, troppi treni sono partiti e continuano a partire sui binari della riforma, che però rimane sempre di facciata e provvisoria.

Non saprei dire quante volte e per quante ragioni mi capita di ripensare alle parole di don Lorenzo Milani nella sua Lettera a Pipetta del 1950, e che ripropongo alla meditazione di tutti:

“Caro Pipetta, Tu dici che ci siamo intesi perché t’ho dato ragione mille volte in mille tue ragioni: Ma dimmi Pipetta, m’hai inteso davvero? È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così… Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso”.

Sì, è così: non è detto infatti che, pur solidarizzando per tante cause, ci siamo intesi veramente, per cui possibili “tradimenti” o chiarimenti si rivelano ora necessari.

All’unico scopo di non fermarsi ad accomodamenti ed obiettivi immediati - alle “attività” e alle realizzazioni di prestigio - mentre scompare all’orizzonte la prospettiva del cambiamento d’epoca globale che rimane da perseguire. Si potrebbe dire che perdura una pratica diffusa di “modellismo ecclesiale” che non si traduce in trasformazioni reali sul terreno, mentre sparute avanguardie sono destinate a fare storia a sé, al di fuori della massa che continua a fare blocco. E qui è d’obbligo tornare alla distinzione di Paolo VI nella Ecclesiam suam quando dice di “confrontare l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua Sposa santa ed immacolata e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta, …non mai abbastanza perfetto, abbastanza venusto, abbastanza santo e luminoso, come quel divino concetto informatore lo vorrebbe”. 

Come saldare immagine ideale e volto reale della Chiesa? Questo è il problema!

Come ci ricorda Papa Francesco, qualche mese prima della enciclica citata Paolo VI offriva indicazioni precise per mettere mano al problema della “preservazione della fede nel popolo italiano”: “Noi pensiamo che tutti quanti qui siamo abbiamo la persuasione che questi ed altri problemi, interessanti la stabilità e l’efficienza della Chiesa in Italia, non possono essere risolti da quel vecchio medico, che in altre circostanze è il tempo; nella presente condizione di cose il tempo non corre a nostro vantaggio; da sé i nostri problemi non si risolvono; né è da credere che la nostra fiducia nella Provvidenza, fiducia sempre doverosa e sempre immensa, esoneri noi Pastori, noi responsabili, dal compiere ogni possibile sforzo per offrire alla Provvidenza l’occasione di suoi misericordiosi interventi. Come non è da credere che a tali problemi ciascun Vescovo, e nemmeno ciascuna regione possa da sé dare sufficiente soluzione; se, per ipotesi, ciò fosse in alcun caso possibile, ivi nascerebbe il dovere di aiuto e di solidarietà per quanti meno fortunati - la maggioranza certamente - non possono da sé vincere difficoltà, di solito gravissime e aventi di per sé dimensioni nazionali” (Discorso all’assemblea plenaria della CEI, Martedì 14 aprile 1964).

Non basta mettere mano a qualche settore, perché il problema è globale e trasversale. Quello che mi permetto di dire sommessamente, ma con piena convinzione, a questo proposito è che ritengo necessaria una inversione di rotta: se si continua a credere che da una immagine ideale di chiesa si possa passare a darle un volto reale si pecca di facile idealismo. È a partire invece dal volto reale e dalle situazioni concrete di opacità che si può e si deve verificare se queste conservano la necessaria trasparenza che lascia intravedere in controluce l’immagine ideale. In qualche modo è quanto ci viene suggerito dalla lettera agli Efesini in 5,25-27: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”.

Alla base c’è che “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”: tutto nasce di qui!

Questo significa che non basta attardarsi all’infinito a perfezionare modelli teologici e istituzionali con progetti e piani pastorali sempre più aggiornati e sofisticati, per muoversi invece sul piano delle persone e delle relazioni reali, al di fuori di formule programmate o di ruoli formali già qualificati: c’è da partire da dove si dice sempre di voler arrivare, e cioè dalle persone in carne e ossa, a cui non basta riconoscere soltanto un primato ideale. Parafrasando il noto detto, è da riconoscere invece che da una parte c’è chi si arma, dall’altra c’è chi parte! In effetti non facciamo che armarci e addestrarci per arrivare agli altri, mentre sarebbe necessario partire da loro e con loro: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20).

Qui il discorso ci riporta alle parole con cui l’Ordine dei Predicatori vuole celebrare il suo Giubileo per rivivere la sua vocazione: “Mandati a predicare il vangelo”. Ma in forza di quanto detto finora è chiaro che non basta farne uno slogan come ombrello che copre tutto. Anche qui è questione di partire dal basso e vedere dal vivo come materialmente “predicare il vangelo” possa prendere forma sul campo nel nostro stato di cose, senza contentarsi di come e di quanto sia stato fatto in passato. Ebbene, niente di nuovo se torniamo a dire che proprio con questo intento “sperimentale” siamo partiti tanti anni fa e continuiamo il nostro cammino fuori di binari precostituiti, mentre intorno la preoccupazione dominante sembra sempre quella di presidiare una sorta di “Fortezza Bastiani” nel Deserto dei Tartari, dove tutto funziona alla perfezione ma in maniera autoreferenziale.

Vien fatto di ricordare tutto questo per un motivo ben preciso: per noi la spinta propulsiva di partenza - che non si è esaurita - è stata quella appunto di mettere “alla prova delle persone” la svolta epocale del Vaticano II inteso come ripresa del vangelo da predicare di nuovo a questo mondo. E questo non con proclami ed apparati, ma facendosi compagni di strada con chiunque voglia condividere questa avventura tutta da vivere. È il cammino che fin dai primi passi ha portato alla presa di coscienza e alla prospettiva che la chiesa dovesse diventare di nuovo “Chiesa dei gentili”, e cioè delle genti e della gente, specificamente diversa dal modello unico di chiesa da cui il Concilio ha cercato di uscire. L’ipotesi di lavoro era ed è che non si può arrivare ad un nuovo modo di essere chiesa - tanto ricercato e teorizzato - cercando di trasformare la vecchia struttura, ma dando vita ad un nuovo impianto su basi e protagonisti diversi, appunto “ecclesia ex gentibus” o chiesa del vangelo rispetto a quella della appartenenza e della osservanza.

Altrimenti succede - come è successo - che tutto si riduca a frammentazioni interne di una chiesa caleidoscopio che si dilania in continui conflitti, invece di trovare una feconda dialettica al suo interno. Se ho l’ingenuità di rilanciare questa ipotesi, così come era stata embrionalmente formulata nel 1974 (“Una Chiesa per i Gentili”), è perché ha fatto da filo conduttore in tutti questi anni, pur essendo perdente rispetto agli apparati mentali e istituzionali dominanti. Ma è anche perché è qui il punto che mi porterebbe a ripetere con don Milani verso i tanti con cui ho condiviso ansia e impegno di rinnovamento: “Ma dimmi Pipetta, m’hai inteso davvero?”.

Se poi sono costretto a ripetermi è perché è l’unico modo per non far spegnere il lucignolo fumigante: per tenere in vita questo intento che non ha supporti accademici, istituzionali ed economici di nessun genere, salvo la condivisione e il libero sostegno di chi nutre la stessa convinzione e speranza. Certamente non ha bisogno di ripetersi qualunque istituzione che esiste quasi per definizione, anche se non sarebbe male che di tanto in tanto mettesse in questione se stessa nei confronti di quanti la abitano senza diritto di cittadinanza, se non quello di “annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferito dal Vangelo” (1Cor 9,18).

Mi chiedo allora, per chiudere, se il quadro che ci offre Franco Ferrari qui di seguito sia un modo di armarsi o un motivo in più per partire:

e cioè vedere come stanno effettivamente le cose riguardo alla promozione e “preservazione della fede nel popolo italiano”.



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