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Ci accomuna con ogni uomo sulla terra

Il santone musulmano del Bangladesh, con il quale ero come un fratello e amico, un giorno mi disse in confidenza: “Sai che ho donato agli orfani anche l'ultimo pezzetto di terra che mi ero tenuto per la tomba? Tanto, quando sarò morto, cosa importa dove sarò sepolto?”.

Il peer Rajak Chisti era un uomo benestante, con case e terreni, nel villaggio non lontano da Jessore, la cittadina dove ho vissuto quindici anni della mia vita missionaria. Aveva donato tutto quello che aveva a un orfanotrofio, perché si prendesse cura dei bambini bisognosi e aveva “occupato” il terreno sulla sponda del fiume, in città. Qui aveva costruito alcune capanne per accogliere bambini poveri e ospitare pellegrini desiderosi di dedicare qualche giorno della loro vita alla meditazione. Si era, però, tenuto un pezzetto di terra - cinque metri per cinque - dove essere sepolto, nel suo villaggio di origine. Era sorridente quel giorno, quando mi confidò che si era “liberato” anche di quell'ultimo pezzo di proprietà: “cosa importa dove sarò sepolto?”.

Appunto: cosa importa? Da giornali e televisioni è stata data abbastanza risonanza alla questione delle fosse comuni - in cui sono stati ospitati i cadaveri delle povere vittime dello tsunami del 26 dicembre scorso - e ai chips elettronici per identificare le (nostre) vittime. Ma spero che non saranno queste le cose che più ci preoccupano. I missionari che desiderano condividere la vita, non hanno difficoltà a condividere la terra di sepoltura con la gente di cui sono ospiti e servi. Gli stessi sentimenti, credo, hanno tutti i cristiani “cittadini del mondo”, al di là dei sacrosanti affetti familiari.

“La chiesa è sempre direttamente coinvolta e partecipe alle grandi cause per le quali l'uomo di oggi soffre e spera. Per la chiesa nessun popolo è straniero, perché ovunque c'è un cristiano suo membro, tutto il corpo della chiesa ne è coinvolto. Anzi di più, ovunque c'è un uomo, lì c'è per noi un vincolo di fratellanza”. Quanto profonde, quanto sono vere queste parole che il Papa ha detto ai diplomatici accreditati presso il Vaticano, lunedì 10 gennaio scorso!

Un metodo per la Quaresima. In quel discorso ai diplomatici, il Papa ha proposto un metodo di vita che può andar bene per la nostra conversione quaresimale: dove c'è un cristiano, anzi, dove c'è un uomo o una donna, là il cristiano ha un fratello e una sorella, un membro della propria famiglia umana di cui interessarsi, da soccorrere, da amare. I cristiani trovano nella fede la forza “per superare le difficoltà, per quanto grandi esse possano essere, rafforzando e facendo prevalere i comuni vincoli di umanità su ogni altra considerazione”.

Il Papa, nello stesso discorso, indica quattro sfide per il nostro impegno universale:

• la vita, il primo dono di Dio, a ciascuno di noi e a tutto il creato;

• il pane, frutto della terra resa feconda dal suo Creatore;

• la pace, bene sommo e benedizione di Dio per tutti i popoli;

• la libertà, da godere e vivere con senso di corresponsabilità.

Un anziano gesuita di novant'anni, missionario in India da più di sessanta, di fronte alla sfide del nostro tempo, non riesce... ad andare in pensione. Con buon senso di umorismo, dice: “Siamo nati in un mondo ingiusto, ma non lo lasceremo prima di averlo cambiato in meglio!” Possiamo far nostra questa sua battuta .



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