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Da 30 anni missionario in Giappone

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Padre Flavio, originario di Recoaro Terme, ha parlato della sua vita missionaria alla festa dei famigliari dei saveriani, domenica 31 maggio.

Ho 56 anni, 30 di questi passati gioiosamente in Giappone come missionario. Per chi identifica mentalmente l’opera missionaria con l’aiuto ai poveri, la missione in Giappone può sembrare “anomala”. Certo, anche in Giappone la chiesa è presente con opere assistenziali, ma il campo d’azione principale è l’educazione. Anche noi saveriani, oltre all’attività nelle parrocchie e nelle università, gestiamo alcune strutture educative per bambini in età prescolare.

Il Saverio è ancora ricordato

La percentuale di cristiani battezzati non arriva allo 0,4%, ma la fascia di gente che è venuta a conoscere e stimare il cristianesimo attraverso le scuole cristiane è incalcolabile. Tanti non arrivano al battesimo, perché la religione di famiglia è un ostacolo piuttosto difficile da superare, ma capita spesso di sentirli affermare che “credono in Gesù”. Molte famiglie poi scelgono le nostre scuole proprio perché sono d’ispirazione cristiana.

La chiesa giapponese avrebbe potuto avere una diffusione numerica notevole, se non ci fosse stata una lunga e spietata persecuzione terminata solo nel 1873. Il santo che dà il nome alla nostra congregazione, Francesco Saverio, è approdato in Giappone nel 1549 e, pur rimanendovi solo due anni, è diventato un personaggio tuttora ricordato nei libri di storia giapponesi. In quel periodo il numero dei cristiani era aumentato in maniera prodigiosa, fino a quando il cristianesimo fu decretato “fuorilegge”.

Fede vissuta fino al martirio

Ultimamente, la chiesa giapponese ha ripreso a studiare quell’epoca di persecuzione, non solo per esaltare la virtù dei martiri, ma per capire cosa la chiesa di allora ci possa ancora insegnare. Infatti, scegliere la morte pur di non rinnegare la fede, presuppone una vita vissuta con convinzione nella fede.

Inoltre, come preparazione alla beatificazione di 188 martiri, rappresentanti dei 30mila e più che hanno dato la vita per la fede, si è parlato anche di coloro che sono sfuggiti alla persecuzione e che, pur nel nascondimento più attento, hanno vissuto la loro fede e per 200 anni l’hanno trasmesso agli altri.

Essi hanno dovuto subire l’umiliazione di rinnegare ogni anno pubblicamente la loro fede, calpestando un’immagine in bronzo di Cristo o di Maria, immagini chiamate fumie. In quei tempi, se in un villaggio ci fosse stato anche solo un cristiano e gli altri non lo avessero denunciato, tutti sarebbero stati condannati a morte.

L’espiazione della colpa

Tutti i cristiani di un villaggio, quando si recavano a calpestare i fumie, tenevano i piedi inarcati in modo da toccare il terreno solo con il calcagno e con le punte delle dita. Poi, dopo aver calpestato i fumie, tornavano a casa tenendo forzatamente alzate le dita dei piedi. Una volta a casa, si lavavano i piedi e bevevano quell’acqua. Interrogati sul senso di tale cosa, risposero che non era un rito e non si aspettavano alcuna ricompensa divina per quanto facevano. Bere l’acqua sporca era una richiesta di perdono per non aver avuto il coraggio di scegliere la morte. Quando poi finalmente il cristianesimo fu nuovamente ammesso, risultò che in tale area vivevano decine di migliaia di cristiani.

Imparare dai martiri giapponesi ci sembra troppo difficile. Ma possiamo imparare qualcosa da coloro che, pur non avendo avuto la forza del martirio, hanno avuto il coraggio di chiedere perdono in maniera così commovente, e hanno avuto la fede sufficiente per non disperare di ottenere il perdono di Dio.



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