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Forum "Dialogo Inter-Religioso", Interventi / 1

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P. Mario Menin, direttore di Missione Oggi, introduce i lavori del Convegno.

FORMAZIONE NEI SEMINARI

Domanda > Aldo Giannasi (missionario d’Africa): Nelle mie visite ai seminari della Campania, Puglia e Basilicata, per conto della PUM (Pontificia Unione Missionaria), ho incontrato circa 80-90 seminaristi, ai quali ho chiesto se avevano incontrato o no degli immigrati e, più specificamente, dei musulmani. Risposta: quasi nessuno. Tuttavia ho notato che tutti sentivano l’incontro come un’esigenza profonda del loro ministero. Chiedo perciò a don Giampiero se non si potrebbe fare di più nei seminari a livello formativo, pastorale.

Domanda > Stefano Berton (missionario saveriano): Anch’io giro i seminari per conto della PUM. Ho sentito don Giampiero proporre varie soluzioni. Ho constatato che il corso di missiologia è presente in pochi seminari e che i seminaristi non ricevono una “dimensione missionaria” dalle varie discipline. Come si potrebbe allargare la formazione missionaria nei seminari?

Risposta > Giampiero Alberti: In Lombardia abbiamo tentato qualcosa, ma non siamo ancora riusciti a coordinarci efficacemente. Già dieci anni fa il rettore del seminario di Milano mi obbiettava che la missiologia era inserita in altri modi nei programmi di studio. Oggi constato che si sono aperti spazi più vasti nei seminari: ogni due anni mi chiamano per un corso di tre-quattro giorni, non tanto sull’islam, che i seminaristi già conoscono, quanto sulla pastorale e sui documenti della Chiesa in merito. Sono questi aspetti pastorali ad accendere il cuore dei seminaristi e dei giovani sacerdoti. Per ora non c’è granché, ma qualcosa si muove.

Risposta > Mons. Fitzgerald: Don Giampiero ha parlato di “sogni”. Io ho sempre sognato la formazione permanente dei professori dei seminari. I biblisti potrebbero fare qualcosa sul rapporto tra Bibbia e altre religioni, ad esempio sul tema della rivelazione. È importante aiutare i professori ad avere questa dimensione nel loro insegnamento ordinario. I canonisti italiani l’hanno fatto, dedicando una sessione di studio al diritto islamico.

IMPEGNO DELLA CHIESA ITALIANA CON I MUSULMANI

Domanda > Giuliano Vallotto (sacerdote di Treviso): Mi occupo di rapporti tra cristiani e musulmani nella diocesi (di Treviso). Devo notare che spesso il mondo missionario ha un atteggiamento negativo e contrario. Mi riferisco in particolare ai missionari reduci dall’Africa subsahariana. Al massimo si parla delle altre religioni all’interno della teoria del “compimento”, cioè come preparazione al cristianesimo. Per quanto riguarda la “task force”, sono contrario; piuttosto valorizzerei e metterei in rete tutte le iniziative già esistenti. Sono, infatti, convinto che esistano molte più iniziative, tra la gente, di quante se ne conoscano.

Risposta > Giampiero Alberti: Per “task force” non intendo un gruppo di soli esperti, immagino piuttosto un coinvolgimento di tutti coloro che sono impegnati nel dialogo interreligioso. Naturalmente qualcuno di competente e capace deve esserci, altrimenti rischiamo di condannarci a tante buone intenzioni, senza arrivare al dunque nell’azione. Ecco perché ho parlato di “task force” iniziale. Stiamo lavorando perché le nostre Facoltà teologiche prendano coscienza del problema e inseriscano questi corsi, senza aspettare troppo. A Milano ho proposto un corso per la formazione di imam, cosa che avviene già in altri paesi europei, come la Francia. Quindi, corsi teologici aperti ai musulmani nelle nostre Facoltà, con la possibilità di rilasciare dei diplomi. A Milano sono proprio i giovani musulmani a chiederlo. Dico questo anche perché esiste il rischio concreto che tra i musulmani qualcuno si autoproclami imam senza aver frequentato un corso che dia garanzie di serietà, facendo crescere la confusione e autolegittimandosi come rappresentante dell’islam, mentre in realtà non rappresenta nessuno. Si verificherebbe così una situazione molto pericolosa.

Commento > Sr. Gianlivia (già missionaria in Africa): Sono stata missionaria per 33 anni tra Burundi, Congo RD e Camerun. Ciò che Don Giuliano Vallotto ha detto mi ha stupito un po’. Ci possono, sì, essere dei missionari che, una volta rientrati, fanno molta fatica a riadattarsi e a comprendere il fenomeno dell’immigrazione in tutti i suoi aspetti, l’appartenenza religiosa compresa. Anch’io, rientrata dalla missione, ho fatto fatica ad inquadrare il fenomeno dell’immigrazione, in particolare le persone provenienti da paesi musulmani, ciononostante ho deciso di dedicarmi a questo. Ora mi occupo esclusivamente di migranti in una parrocchia della periferia di Brescia. Penso che ci sia una grande confusione e impreparazione davanti a questo fenomeno.

SIGNIFICATO DI “DIALOGO INTERRELIGIOSO”

Domanda > Teresa Benedini: Con soddisfazione ho sentito affermare che l’essere cristiani è inscindibile dal dialogo e che l’esigenza del dialogo nasce proprio dalla consapevolezza del nostro essere cristiani. Secondo me, l’attuale situazione della Chiesa italiana, e di quella bresciana in particolare, è di chiusura nei confronti del dialogo. Credo che si tratti anzitutto di una questione di buona volontà pastorale, ma questo non dipende forse dal fatto che non siamo cristiani nel profondo?

Risposta > Maria A. De Giorgi: Rispondo “trasversalmente” ad alcune domande sul significato della parola “dialogo”. Che senso ha? Che cosa significa? C’è una grande ambiguità intorno a questo termine, che non vuol dire “compromesso”. Per me il dialogo nasce da una sovrabbondanza d’amore e dal suo radicamento nel comandamento massimo del cristianesimo, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Gesù non fa discriminazioni, ma ci dice “ama l’altro così com’è e dov’è”, cercando di conoscerlo e di offrirgli la testimonianza d’amore che viene dalla tua fede in Gesù Cristo, fino a dare la tua vita per lui. Dal punto di vista cristiano il dialogo sta tutto qui.

INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE A SCUOLA

Domanda > Liliana (insegnante di Religione Cattolica): Dando per scontato che a scuola non si fa catechesi, ma cultura religiosa, è possibile conciliare l’insegnamento della religione cattolica a bambini e ragazzi rispettando le altre tradizioni religiose, cui molti di loro ormai appartengono?

Risposta > Giampiero Alberti: Per quanto riguarda la scuola, c’è un’esperienza che sto portando avanti, andando nelle elementari e nelle medie a parlare delle altre religioni, coinvolgendo proprio i ragazzi appartenenti ad altre tradizioni religiose. Invito spesso i genitori musulmani a parlare nelle scuole insieme a me. In questo modo nasce quell’amicizia di cui si è parlato, per arrivare a fare un secondo passo, quello dell’approfondimento della conoscenza dell’altro.

Risposta – Mons. Fitzgerald: Per quanto riguarda l’insegnamento della religione a scuola, vorrei citare la mia esperienza personale. Prima di entrare in seminario, ho frequentato una scuola protestante ed ero dunque escluso da ogni corso di religione, così avevo un catechista che veniva a casa mia per la catechesi cattolica. Sono dell’idea che la catechesi non sia compito della scuola, ma della famiglia e della parrocchia. Capisco però che le famiglie, quando scelgono una scuola cattolica per i loro figli (mi riferisco alla Gran Bretagna), si aspettino che essi abbiano una formazione alla fede, sicché scaricano sulla scuola cattolica questo compito. Ma tale responsabilità resta dei genitori e della parrocchia. Vedo la scuola più come un luogo di cultura, in cui s’insegnano le religioni, compreso il cristianesimo. Spesso, infatti, la tentazione dei nostri insegnanti è di parlare di tutte le religioni, meno del cristianesimo. Si deve invece parlare anche del cristianesimo, dal punto di vista culturale ovvero del suo influsso sulla realtà di un Paese (come l’Italia, per esempio).

LA TEORIA DEL “COMPIMENTO”

Risposta > Maria A. De Giorgi: Rispondo al don Giuliano Vallotto che ha sollevato la questione della teoria del “compimento”. Rispetto a quanto ha affermato, devo ricordare che il punto di riferimento non sono io, cristiano/a, e nemmeno un certo tipo di cristianesimo storico, né la Chiesa istituzionale, il compimento è Cristo. Cristo è di Dio, non è nostro. In questo senso, un conto è il mistero di Cristo nella sua pienezza, che è dono di Dio per tutti, un altro la comprensione che ne abbiamo. A volte l’identificazione indebita che facciamo tra il mistero che ci supera e trascende e la comprensione che ne abbiamo crea problema. Di fronte al mistero di Cristo tutti siamo interpellati, anche noi che ci diciamo cristiani. Quindi, dire che Cristo è il compimento di tutto, dal punto di vista cristiano non è ridurre l’altro a me o alla comprensione che ho di questo mistero, ma rimandarlo al mistero di Cristo, che poi è il mistero di Dio, perché Cristo è di Dio.

Risposta > Mons. Fitzgerald: Per quanto riguarda il “compimento”, sono d’accordo con quanto ha detto Maria A. De Giorgi. Il nostro compito di teologi è di discernere nello Spirito i valori delle altre religioni, valori che aiutano le persone ad entrare nel mistero di Cristo. Non dico agli appartenenti ad altre tradizioni religiose di convertirsi al cristianesimo, ma di partecipare al mistero di Cristo, al mistero pasquale. Mi riferisco alla Gaudium et spes (n. 22), dove è detto che lo Spirito dà la possibilità a tutti, in modi che solo Dio conosce, di partecipare al mistero pasquale. Ma che cosa significa “mistero pasquale”? È la morte di se stessi per vivere per gli altri. Questo non si può fare senza la grazia di Dio, e la grazia viene da Cristo. Questo è quello che ci dice la nostra fede.

Ci sono elementi nelle altre religioni (ad esempio, la preghiera, il digiuno, ecc.) che aiutano le persone a vivere questo mistero pasquale anche senza riferimento a Cristo.

Mi sembra che sia questo che noi dobbiamo saper vedere. Non dobbiamo aspettare che gli altri accettino la nostra fede e nemmeno sacrificare la nostra fede (e teologia) per essere accettati dagli altri: questo comportamento non appartiene alla teologia cattolica. Possiamo vedere le altre religioni in maniera positiva, non come vie di salvezza indipendenti da Cristo e nemmeno come una semplice “preparazione” a Cristo, ma come un modo vivo e creativo per giungere a Cristo, anche senza conoscerlo.



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