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Il pallone al posto del fucile

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Testimonianze sui bambini di guerra

Nell’ambito delle iniziative per la mostra sul giocattolo, i missionari saveriani hanno organizzato vari incontri pubblici. Uno ha trattato il problema dei bambini soldato e dei bambini in guerra: chi sono, cosa fanno e perché. Lo sport è un’alternativa? Ne hanno parlato p. Roberto Salvadori, saveriano padovano missionario in Congo, e Ghislaine Muderwa, saveriana ed educatrice congolese di Bukavu.

Un drammatico abuso

Padre Roberto è arrivato in Congo nel 1997, un anno dopo lo scoppio della guerra che non è ancora del tutto finita. “In questi sette anni - ha detto - ci sono stati quasi quattro milioni di morti. La guerra in Congo ha distrutto tutto, anche la dignità umana. Molti padri di famiglia rientrano la sera a casa facendo finta d’essere ubriachi perché si vergognano di non aver potuto lavorare e guadagnare qualcosa per i figli”.

“Durante il conflitto, i bambini soldato erano presenti sia in foresta che in città ed erano schierati non solo con i ribelli, ma anche con l’esercito regolare. Il presidente Kabila, per un certo periodo, pagava questi ragazzi anche cento dollari al mese, che è una cifra considerevole per il Congo”. Padre Roberto ha spiegato perché la scelta cadeva su bambini e adolescenti: “Il bambino è ricercato come soldato perché è più facile da drogare e da addestrare. Per la gente e anche per noi missionari, la paura più grande era quando s’incontrava un bambino-soldato, perché non si sapeva come avrebbe reagito”.

Il calcio aiuta a unire

Per p. Roberto, da sempre grande sportivo e appassionato di calcio, lo sport è un’alternativa a questa situazione. “Per i ragazzi stare in un campetto, e non in strada, è un’occasione importante. Si trovano e giocano insieme bambini appartenenti a etnie e tribù diverse; nel gioco tutti sono uniti. Il calcio e lo sport in generale sono uno sfogo per esternare quello che si tengono dentro e, al tempo stesso, un modo per capire la disciplina e le regole”.

L’estate scorsa hanno partecipato al campo estivo più di duemila ragazzi, seguiti da 250 giovani e adulti congolesi. “La formazione dei laici è importante; il loro contributo è fondamentale. I missionari e la chiesa locale sono una grande speranza per tutto il popolo. Hanno avuto il coraggio di denunciare i problemi più gravi, pur pagando a caro prezzo questa scelta”. A Bukavu, infatti, in due anni sono stati uccisi anche due vescovi.

La famiglia come scuola

Suor Ghislaine, che ora ha 33 anni, ha descritto la situazione del Congo prima della guerra, quando lei era bambina. “In Congo la famiglia è molto importante. La mia era molto numerosa. Mio padre, sposato due volte, aveva ventidue figli: quindici propri e sette adottati da un fratello morto giovane. La gente diceva che la mia famiglia era come una scuola”.

Ghislaine ricorda i dopo cena, tutti insieme intorno al fuoco, quando la mamma raccontava alcune storie a scopo educativo. Era il momento in cui avveniva la trasmissione dei valori. “La mia vocazione è nata proprio in famiglia; pregavamo sempre per le vocazioni e per mio fratello che era in seminario”.

La formazione di un bambino congolese, però, passa anche attraverso la scuola e la parrocchia: “Poter studiare è importante. Durante le vacanze, i campi organizzati dalla parrocchia aiutano a non disperdersi e a socializzare”.

Il fenomeno dei bambini soldato è nato anche per il venir meno di questi cardini e per la povertà: bisogna procurarsi il cibo per sopravvivere. Tanti bambini rimangono traumatizzati da queste tristi esperienze, che rubano loro la gioia di una vita normale e spensierata, come dovrebbe essere per tutti i bambini del mondo. Per fortuna, la chiesa congolese non è rassegnata, ma cerca di fare di tutto per stare vicina alla gente e infondere speranza.



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