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Fatica del missionario, la Notizia di Dio e Cristo Signore

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Vestiti e regali chiusi nelle casse...

Il Giappone di cinque secoli fa era un paese aperto e vario; non era ancora unificato né monolitico. Ogni zona aveva il suo governatore - daimyô -, spesso in conflitto e in competizione con gli altri. C’era anche una diffusa ricerca del senso della vita, una domanda sul perché delle cose, una stima della verità ragionevole, che potremmo definire “onestà intellettuale”.

Un vero “kamikaze” divino

Saverio sembra essere arrivato in Giappone proprio nel momento giusto, per stimolare questa ricerca e trovare una risposta, ragionevole ma critica, a questa domanda di senso. Una delle domande più insistenti che i saggi giapponesi rivolgevano al Saverio era questa: “Se Dio è infinitamente buono, come può esistere il male?”. Francesco non racconta la sua risposta; afferma solo che i suoi ascoltatori ne restavano “completamente soddisfatti”.

La proposta cristiana incoraggia i giapponesi che la ascoltano a prendere le distanze dalla soggezione reverenziale verso le autorità sociali e religiose, ad acquistare una visione critica verso le tradizioni millenarie, a superare il tacito consenso con una maggiore capacità di discernimento etico.

In questo senso, il cristianesimo ha dato un apporto radicalmente nuovo alla cultura giapponese del tempo. È stato come un vero kamikaze divino, il vento dello Spirito che muove le acque e scuote il suolo della vita umana. Anche questo fa parte della “buona novella” portata da Cristo Salvatore. È il lievito che fermenta la massa.

Ma la missione in Giappone non è stata tutta rose e fiori. Oltre “l’amore a prima vista”, le difficoltà sono state tante, più del previsto. Le persecuzioni sono iniziate presto. Saverio stesso, scrivendo al “padre Ignazio”, avverte che i missionari “saranno assai perseguitati in tutti i modi”. Gli ostacoli maggiori vengono proprio dai bonzi, che sono influenti sulla gente e sui governatori locali.

Come e dove ha speso il suo tempo

I 27 mesi del Saverio in Giappone sono passati in fretta. Trascorre un anno intero a Kagoshima, la città di Hanjiro: un caso eccezionale, ma era necessario per imparare un po’ di giapponese e preparare i testi fondamentali per la predicazione evangelica. Poi il Saverio passa alcuni mesi a Hirado, dove è ricevuto dal governatore “con molto piacere”.

Alla fine del 1550, è a Yamaguchi. Da qui, intraprende il lungo viaggio verso Kyoto, dove pensava di poter incontrare il grande imperatore, a cui avrebbe voluto presentare le sue credenziali come “ambasciatore di Cristo” in terra giapponese. Due mesi di viaggio a piedi, nel gran freddo invernale e tra continui rischi e stenti. Una fatica inutile: non è neppure ricevuto e non ne sarebbe valsa la pena, data la decadenza in cui versava il “gran sovrano”.

A marzo del 1551 Saverio è di nuovo a Hirado e prosegue per Yamaguchi, dove resta 5 mesi. Qui decide di indossare tutti i suoi abiti migliori e tirare fuori i doni che aveva tenuti nelle casse per due anni. Si presenta al governatore con un orologio, un paio di occhiali, uno specchio, vasellame vario e perfino un archibugio a tre canne! In cambio, chiede il permesso di “predicare la legge di Dio e di adottarla a tutti coloro che volessero accettarla”. Il permesso è accordato. Saverio e i compagni si danno da fare e sono impegnati giorno e notte in interminabili conversazioni sulle tante questioni da chiarire alle menti sottili degli ascoltatori.

L’ultimo luogo visitato dal Saverio è Bungo, la città-porto di Ôtomo Sôrin. Da qui, a metà novembre 1551, egli decide di tornare in India, passando per Malacca, per riprendere i contatti con le comunità cristiane e i missionari sparsi tra i popoli d’Oriente. Ma ha già la mente fissa sulla Cina.

Scrive il Saverio: “In Giappone, io mi adoperai molto per sapere se in qualche tempo avessero avuto notizie di Dio e di Cristo. Ma, secondo i loro scritti e quello che dice la gente, compresi che mai avevano avuto notizia di Dio”. Il missionario di Navarra è stato davvero il primo a farlo conoscere alle genti del Giappone.

Il daimyô che non aveva coraggio

Prima del Saverio, alcuni portoghesi avevano già raggiunto le isole a sud del Giappone con i traghettatori cinesi, che commerciavano con Indocina e Indonesia. Questi popoli venivano chiamati nanban, “i barbari del sud”; a loro sono poi stati associati anche i nuovi arrivati dall’Europa: portoghesi, spagnoli e olandesi.

Nel 1543, sei anni prima dello sbarco del Saverio, su una giunca cinese, vicino a Kagoshima era approdato un portoghese che aveva venduto al signorotto Tokitaka due esemplari di una portentosa arma che sparava proiettili. Aveva anche fatto un corso celere a un samurai per spiegargli l’uso dell’arma e il come produrre la polvere. In otto mesi, gli artigiani di Tokitaka erano stati capaci di costruire l’arma e in pochi anni, le armi da fuoco made in Japan erano reperibili in tutto l’arcipelago. Anche quella volta, il primo prodotto occidentale a raggiungere e diffondersi con successo - prima del vangelo della pace - è stata un’arma da fuoco!

Due anni dopo, nel 1545, sempre su giunca cinese, altri portoghesi con un carico di merci preziose erano giunti fino a Bungo. Si racconta che il capitano cinese avesse cercato di far fuori i mercanti e dividere le merci con la complicità del governatore locale. Ma il giovane figlio Ôtomo Sôrin, che aveva ascoltato la conversazione, aveva rimproverato il padre: “uccidere uno straniero innocente è un atto riprovevole!”. Il padre rinunciò al crimine.

Qualche tempo dopo, era arrivato nel porto Diego Vaz di Aragona. Il giovane Sôrin aveva notato che il portoghese passava il tempo leggendo e pregando e gli aveva chiesto a quali divinità egli rivolgesse le sue preghiere. Il portoghese gli aveva risposto che, in vita sua, aveva sempre pregato l’unico Creatore del mondo e il Salvatore dell’umanità.

Divenuto governatore di Bungo, Sôrin mandò a chiamare Saverio, dicendo che voleva parlargli. Saverio andò, poco prima di lasciare il Giappone. Ma l’uomo non si convertì a Cristo, se non 26 anni dopo, nel 1578, prendendo il nome di “Francesco”. Anche padre Valignano, successore del Saverio, rimase colpito dalla profonda fede dell’uomo, il daimyô che non aveva avuto il coraggio di diventare cristiano in gioventù. Morì nel 1587, l’anno in cui l’altro daimyô Toyotomi promulgava l’editto di espulsione dei missionari dal suo territorio.

La sorte dei cristiani giapponesi

Dopo il Saverio, la fede cristiana si è diffusa in modo sorprendente nelle isole meridionali del Giappone. Si calcola che in 50 anni oltre 300mila giapponesi avevano ricevuto il battesimo, con un pugno di missionari al lavoro. Il cristianesimo aveva messo buone radici e stava crescendo. Un successo enorme, se pensiamo che oggi i cattolici giapponesi non raggiungono il mezzo milione, anche se i sacerdoti e i religiosi sono varie migliaia!

Purtroppo, la fede cristiana, fermento di novità nella società giapponese, era destinata a diventare anche un nuovo motivo di discordia e di conflitto, con persecuzioni sempre più feroci. Molto dipendeva dai governatori locali e dalle simpatie o pressioni dei bonzi. I missionari, cacciati da un posto, erano abituati a cercarne un altro, dove il governatore era più benevolo. A Nagasaki, un monumento ricorda i martiri del 5 febbraio 1597.

Seguono altri due secoli e mezzo di isolamento completo, nell’era dei Tokugawa (1603-1867), con i porti sigillati a qualunque contatto con l’esterno. Dal 1790 al 1869, in varie “retate” avviene una drammatica “caccia al cristiano”. Migliaia di cristiani sono arrestati e deportati, maltrattati e uccisi. Solo nel 1873 viene riconosciuta la libertà di religione anche per i giapponesi e termina la persecuzione contro i cristiani, durata ben 259 anni.

Allora viene permesso agli europei di entrare e inizia il recupero della memoria del Saverio, del cristianesimo e dei martiri cristiani di tre secoli prima.



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