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“I miei occhi… e non un altro” (Gb 19,27) - I giovani d’oggi che...

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I giovani d’oggi che non vanno più in chiesa.

“Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro” rispose Giobbe a Bildad di Suach amici che ribadivano a Giobbe che le sventure, le sventure che gli erano capitate, sono la punizione di Dio per chi non osserva i suoi comandamenti. Il rito ambrosiano nei primi tre giorni della Settimana autentica (santa) legge alcuni brani dal libro di Giobbe nelle celebrazioni eucaristiche, libro dell’Antico Testamento, eppure attualissimo. Venerdì 12 aprile mi è richiesta una testimonianza – nel programma ufficiale è chiamata momento isperazionale – durante un evento di “Percorso Executive in Spiritualità Management” dell’Università Politecnico di Milano. Il mio momento isperazionale sarà preceduto dall’audio-video di un altro simile momento tenuto dal filosofo sloveno Slavoj Zizek, testimone della spiritualità atea. A me la richiesta della testimonianza sulla spiritualità di chi crede in Dio.

Parlare della spiritualità di chi crede in Dio ai giovani studenti del Politecnico, l’istituto più qualificato nel panorama universitario italiano, mi impegna.

La risposta di Giobbe agli amici super-teologi che gli spiegavano tutto su Dio e sul perché delle sventure mi echeggia nella mente e nel cuore. Tanti genitori che si accostano al confessionale per ricevere il perdono, al sacerdote narrano il loro profondo rammarico perché i figli che fino all’adolescenza frequentavano l’oratorio, facevano il cammino Scout e altro, ad un certo punto non vanno più in chiesa.
Eppure molti di questi giovani che andavano assiduamente in chiesa e che ora non vanno più, molti di questi giovani si impegnano negli studi, anche svolgono lavori di fine settimana per alleggerire il peso economico dei genitori, eppure amano di loro iniziativa applicarsi all’arte, alla musica, allo sport, e anche al volontariato.

Bravi giovani, quindi, Ma perché non vanno più in chiesa?

La domanda sui giovani d’oggi non è solo sui giovani d’oggi. E’ anche su molti adulti d’oggi. Porzioni importanti di popoli abbandonano le tradizioni religiose dei loro antenati. La tentazione di imitare Bildad di Suach & amici e intonare spiegazioni di superficiale teologia è a portata di mano. La domanda sui giovani è anche la domanda che molti sacerdoti sentono come loro domanda interiore; fra loro anche il sottoscritto. Ed è un sentire già da tempo!

Abbozzo la eco che mi ritorna dall’ascolto della domanda interiore. Credo che molti giovani, dopo gli anni di bravi chierichetti, dopo gli anni di assiduo catechismo per l’iniziazione cristiana, dopo gli anni di capi scout, dopo gli anni di campeggi estivi ecc. non vanno più in chiesa perché avvertono intensamente il bisogno di “i miei occhi… e non un altro”. Avvertono intensamente il bisogno di riscattare sé stessi dalle premurose cure che cominciano a percepire come cure che partono da un altrove e non da loro stessi.

E’ la potente voglia di sentire di esserci non come un altro da sé.

Di questo sé non sanno, forse, ancora nulla, ma percepiscono che non coincide con un sé tutto messo a posto dalle premurose cure, perfino da quelle dei loro genitori o, in chiesa, da quelle dello zelante sacerdote. Un sé generico, secondo uno stampo.
Loro, i giovani, si sentono nudi come Giobbe, mentre i genitori e il sacerdote si presentano sicuri, troppo sicuri, pronti a rivestire. Attraversa più vitalmente questo nudo momento il giovane che intravede anche nei genitori e nel sacerdote lo stesso pudore e tremito della nudità, piuttosto che il giovane dai genitori e dal sacerdote che ne sono esenti.

Un giorno il postino recapitava le lettere scritte a mano, forse con qualche errore di grammatica. Da quell’errore un caldo palpito dell’amicizia. Un giorno dal finestrino del treno si ammiravano i campi e le montagne. “Ad ogni campanile dì un’Ave Maria per quel villaggio” mi raccomandava mia nonna.

Maria di Magdala vide un giardiniere e parlò con lui, ma non vide nient’altro che un giardiniere. Quando fu chiamata col suo nome: “Maria!”, risorto a sé stessa dall’essere chiamata col suo nome, gridò “Rabbunì”.

“Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”.

p. Luciano.



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