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TRA I CROCEVIA DEL QUOTIDIANO PASSA IL FUTURO

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Narrazioni

Le nostre vite sono biografie narrative. Siamo ciò che narriamo e narriamo ciò che siamo. All’inizio c’era la narrazione e dalla narrazione siamo segnati per sempre. Narrare ci impresta un’identità e non c’è identità al di fuori della narrazione. Mi sono trovato d’improvviso di fronte ad un’altra narrazione il giorno che mi è stato scoperto un tumore al cervello. Il mese trascorso in ospedale, immobile sul letto, crocevia di operazioni, indagini, tubi e timori, è stata l’occasione di narrare di quel mondo. La relazione, il senso del limite, la gratuità e la fragilità della vita, questo ed altro che hanno costituito forse la mia prima narrazione di vita. L’altra è accaduta in Liberia, durante la guerra del 2003 a Monrovia. La narrazione dell’assurdo, della violenza alla stato puro, la follia delle armi e l’opacità dell’impresa umanitaria. L’altra narrazione è iniziata a Monrovia negli occhi pieni di paura di chi scappava dalla violenza cieca dei gruppi ribelli. La terza narrazione scaturisce dal carcere di Marassi. Non esistono storie isolate, neppure dietro i cancelli di ferro azionati col telecomando. I tre anni come assistente del cappellano del carcere sono le ore passate ad ascoltare la libertà che si perde.

La leggerezza delle scelte implica a volte anni di detenzione. Il rammarico si sposa con le promesse, in genere non mantenute, di una trasformazione mai a buon mercato. La narrazione di storie incarcerate che liberano il desiderio di un mondo che dell’altro è un riflesso indifeso. Crocevia di sofferenze spesso incarcerate e murate nel silenzio della dimenticanza. Durante quegli anni sono diventato raccoglitore e minatore di storie. Con la migrazione le altre storie, già incontrate in carcere, si sono affacciate nel Niger, terra di passaggio. Ogni persona è la sua migrazione e  vari sono i crocevia che mano a mano si aggiungono, sovrappongono e a volte si cancellano. All’inizio si decide il viaggio e dopo è il viaggio a decidere l’itinerario e, a volte, lo scopo. Storie insabbiate e nomi fatti di vento. Le narrazioni migranti sono la quarta tappa, quella che si mescola ancora adesso con la mia narrazione.

Le storie succedono a chi le sa raccontare

  • (Henry James)

Incrocio come crocevia

L’incrocio è definito come punto d’intersezione di due o più strade e allora diventa un crocevia. Il primo è un derivato di incrociare, il secondo è composto da una via e da una croce. L’incrocio può diventare crocicchio e allora sono più vie quelle che si intersecano. Entrambe richiamano l’incertezza e la scelta di un percorso, un orientamento e una direzione.

Scegliere, in un contesto di ‘liquidità’ globale (Z.Bauman), appare come un gesto folle, soprattutto se la scelta implica una certa irrevocabilità. Ogni sceltà è, per sua natura, l‘accettazione di un limite, un’esclusione più o meno cosciente di altre possibili mete. E’allo stesso tempo l’inclusione dell’inedito che strada facendo renderà l’opzione degna o indegna di averla compiuta.

Bisogna innanzitutto tacere, a lungo. Ascoltare il clamore delle ‘cose’ non dette, nascoste, soffocate, represse, deformate…lasciarsi trafiggere. Stare in piedi. Un calvario da condividere. Anche una tavola, preparata per tutti, dove la speranza impara, giorno dopo giorno, a nutrirsi di quelle ‘cose’ che si succedono. 

  • ( Trappisti di Tibhrine)

L’incrocio/crocevia esprime la drammaticità dell’umana avventura, che senza garanzie attraversa la vita.Il fascino dell’errante consiste nell’in-certezza di un cammino che, seppur segnato da indicazioni, conserva il soffio del mistero. Ogni incrocio è un mistero che si affaccia e si nasconde dietro il tornante dal quale, ad un certo momento, non si vede più il cammino percorso. E allora la paura, lo sconcerto e financo la tentazione di tornare indietro si presenta, rassicurante. Errante è colui che azzarda il cammino di sentieri ancora poco battuti.

Questo accade sempre nel mondo della sofferenze o delle opzioni fondamentali. La sofferenza apre paesaggi inediti nel nostro immaginario. Ogni scelta ha un impatto sul futuro del mondo e della storia. La storia umana è per un certo verso nient’altro che un cimitero di croci.

La croce

Uno strumento di tortura assunto dall’impero romano come deterrente da tradizioni persiane. Reso col tempo segno di gloria, di potere e d’identità. Ha in parte perso lo scandalo che essa rappresenta. Una sconfitta ineguagliabile dell’umano e del divino. Paolo è colui che ha colto e portato alla luce l’assoluta ambiguità della croce. Nel suo mondo greco-romano, impastato di potere e di fallace filosofia imperiale, narra il discorso di una sconfitta che era e rimane pietra d’inciampo. Non ha nascosto l’espressione di vulnerabilità inconcepibile del Dio crocifisso. Inaudito e inaffidabile per le glorie olimpiche dei vincitori. Il tema della kenosis, lo spogliamento, l’abbassamento, trova nella croce la cifra unica e insuperabile della disfatta.Da allora infatti non si potrà più parlare di Dio senza questa dimensione. E dunque neppure dell’umano.

Ogni umano crocevia incontra una croce sul cammino. Ne sono pieni i cimiteri delle guerre combatutte, solo perse e mai guadagnate. La croce è l’impossibile segmento che unisce la terra per abbracciare il cielo. Le croci segnano le scelte che con-testano l’ordine o il disordine stabilito (E.Mounier). Indicano le follie delle scelte ideologiche e delle religioni che in esse trovano ispirazione. La croce è portata per abitudine, o distrazione conserva una carica sovversiva innegabile.Basta andare in alcuni paesi dove il semplice gesto di portarla implica l’esclusione della vita sociale.Ogni crocevia rimanda ad una croce.Appesa alla storia delle umane vicende non si allontana mai. Attraversa e diventa passerella per attraversare il grande fosso che separa culture e civilizzazioni. La kenosis, è l’abassamento della terra e dunque l’umiltà dell’humus. La cultura stessa ne è segnata, lei che indica culto e coltivazione insieme. L’arroganza dei poteri è smascherata dalla vulnerabilità della verità. La violenza del sacro (R.Girard) e del mimetismo si converte in un dono che disarma la violenza che ha riempito i cimiteri di croci. L’altra croce è il croce-via che apre un altro cammino alla storia.

La via

Il fascino della strada. Luogo di transito e insieme di politica. Sulle strade si fanno le marce, le manifestazioni, le strade si interrompono, si occupano, si nominano. Le strade accompagnano la storia delle città e delle campagne.Arrivano i re, i principi, i presidenti e i dittatori. Anche il messia arriverà su una strada se ancora non fosse arrivato. Strade veloci, senza tempo, di corsa, strade anonime che non lasciano tracce. Sentieri di campagna, dimenticati ormai dai più, riempiti di rovi e di rami secchi.

Portano da qualche parte e allora sono arterie di un tessuto connettivo tra un campanile e l’altro. Le strade vanno via, anzi indicano la via. I crocevia sono vie che per un attimo si incontrano e si interrogano sul da farsi.

Alice: Volevo soltanto chiederle che strada devo prendere!

Stregatto: Be’, tutto dipende da dove vuoi andare!

Alice: Oh veramente poco importa purché io riesca…

Stregatto: Be’, allora importa poco che strada prendi

  • (L. Carroll)

Le domande che si fanno rare invece di essere gelosamente custodite e tramandate. Preferiamo trasmettere alle nuove generazioni le risposte confezionate invece delle domande. Queste ultime dovrebbero guidare la scelta del cammino. Basta domandare, una volta in mezzo al crocevia qual è la strada che ha un cuore.E allora rischiare di seguirla senza sapere se ci saranno locande lungo la strada. Si farà sera quando uno straniero si avvicinerà, sconosciuto ai viandanti. Fà domande sull’accaduto e sul da farsi. Chiede perché la speranza è scappata lontano dagli occhi. Si fa intanto sera e nella locanda c’è un tavolo e un tozzo di pane fatto in casa. Una bottiglia di vino d’uva, messo da parte per l’occasione. E lo straniero prende e spezza il pane e versa il vino e allora gli occhi si aprono e la strada è quella del ritorno.

Non cessare di esplorare

E alla fine dell’esplorazione

Saremo al punto di partenza

Sapremo il luogo per  la prima volta

  • (T.S.Eliot)

Si parte sempre per tornare e guardare dove si partiti con occhi nuovi. E’ questo il senso di ogni viaggio. Il nostos, il ritorno e la via conduce lontano, cioè dentro. I crocevia sono creati per il cammino interiore. Il paese di utopia, che dovrebbe trovarsi in ogni cartina geografica (O. Wilde), si trova dove il pane si spezza e il vino che rallegra il cuore della donna e dell’uomo. Di entrambi perché i loro occhi si sono aperti e lo straniero, nel frattempo, era scomparso. A questo serve la via. Ad incontrarsi in uno dei crocevia senza importanza degli avvenimenti.

Le paure

Mutano col tempo e le stagioni della vita. Ognuno convive con la sue paure. Le ho sentite durante la guerra in Liberia. Più ancora che in sala di rianimazione a San Martino, reparto di neurochirurgia. Paure indotte, create, fabbricate, gestite o soffocate dai farmaci. I crocevia sono incontri di paure condivise. L’occidente ha avuto e ha le sue, come ogni altra civilizzazione. Jean Delumeau le ha descritte con lucidità. La peste, la guerra, gli stranieri, i poveri, le streghe, i barbari, le invasioni, la fame e quanto della morte diventa anticipazione. Ogni epoca ha le sue e le riproduce.

Le paure si apparentano ai nemici. Difficile vivere senza di loro.

Sono i nemici che uniscono quando non c’è null’altro a farlo. Le armi e le strategie di difesa solo cambiano di modalità. Arginare le paure è il loro obiettivo. Le ultime occidentali paure sono particolarmente gravi. Evidenziano una crisi spirituale, antropologica che in tempi recenti Pasolini seppe sospettare con lucidità profetica. E’ la paura di vivere che la chiusura dei grembi e delle frontiere rendono visibili. Lo straniero, povero, ci rimanda alla nostra storia impoverita di migranti improvvisti per decenni. Circa 28 milioni furono gli italiani a cercare altrove la terra che nel frattempo si era fatta inospitale. Altre migliaia sono stati svenduti per il carbone in Belgio e altrove. I treni  e le barche fanno memoria di partenze senza ritorno e ritorni senza partenze. Storicamente inevitabile per il crescente divario di ricchezze e possibilità. I fili spinati e le barriere rendono attuali le paure e le moltiplicano con la complicità dei mezzi di comunicazione che del potere sono espressione cortigiana.

Ci è voluto un Angelo Del Boca per contribuire a smontare l’immaginario coloniale prefascista e fascista del buon italiano. Altre paure che si riconducono a quella della verità. Lei ci spaventa perché rischia di smascherare l’omertà che come compagna fedele accompagna le nostre storie. Eppure solo essa rende liberi. Della libertà che è una migrazione. Di loro ci spaventa la libertà di perdersi, smarrirsi, e rischiare, imprudenti, la vita. In fondo ogni paura non è altro che quella di vivere perdendosi e di questo i crocevia sono il simbolo. Imparare a nominare le paure. Chiamarle per il loro nome, è già un atto di coraggio. Con le paure si convive, si impara e si cresce quando si condividono.

Anche le paure uniscono e diventano sorelle con le quali si va alla scuola della vita. L’abbraccio vince le paure.

L’abbraccio del crocevia

A volte basta solo un abbraccio per cambiare la vita e convertire la paura in fiducia.

L’abbraccio è l’altro modo di interpretare il crocevia. L’abbraccio non sta al crocevia ma ‘è’ il crocevia da sempre sperato e atteso.

Se Tonino Bello definiva la pace come ‘convivialità delle differenze’, analogamente si potrebbe dire dell’abbraccio. L’abbraccio celebra l’incontro della differenza. Lui sta al crocevia di braccia, mani, petti, cuori, battiti, timori e attese. La creazione nel libro della genesi è il realtà l’abbraccio di Dio all’argilla resa viva. Adamah, che è anche un nome proprio in certi paesi mussulmani. L’abbraccio è meno ambiguo del bacio che in fondo porta con se qualcosa del tradimento. L’abbraccio no. Mente molto meno perché è parte del corpo nello spirito che si coinvolge. Si fa tra culture e soprattutto tra persone che si sono attese o allora scoperte da poco. Il padre scrutava da lontano l’arrivo del figlio perduto e gli corse incontro per abbracciarlo. Era l’unico gesto possibile del perdono. Seguiranno l’anello e il vestito della festa perché ciò che era perduto è stato ritrovato. L’abbraccio alla stazione, all’arrivo e soprattutto alla partenza come per tenersi qualcosa di quel momento. L’abbraccio nuziale è ancora più forte e la stretta indissolubile per un attimo. L’eterrnità abbraccia il tempo e lo trasforma in vita. Tra amici, amanti e nemici che si parlano. L’abbraccio è il crocevia della civiltà. Dall’abbraccio si parte e all’abbraccio si torna. Persino sorella morte, come direbbe Francesco, è un abbraccio, il più breve e intenso. La porta all’altro abbraccio, quello definitivo. Tra l’amore e la morte c’è il cantico dei cantici che li celebra entrambi nell’abbraccio degli amanti. Cielo e terra si abbracciano, la verità germoglia dalla terra e il cielo si accontenta della pace per scendere in trincea. E’ al crocevia, nell’abbraccio che ri-nasce l’altro.

La solitudine

Poi c’è la solitudine originaria che accompagna il crocevia. Una realazione unica e abitata di figliolanza che ri-costituisce l’identità fondante di ogni ‘cucciolo d’uomo’ che si trova, un giorno, su questo pianeta. Non è assenza e neppure vaga ricerca di qualcosa andato perso nellle traversie della vita. La solitudine è relazione costitutiva e filiale del mistero umano. Ogni amore, comunque esso si riveli, non potrà esimersi dalla solitudine.

Amare non è naturale come nulla di ciò che è umano è solo naturale.In particolare l’amore.

Segnato per sempre dalla creaturalità feconda della mano divina, ancora calda di tenerezza. Rimane l’impronta per sempre del sigillo nel quale entrambi, Dio e la persona umana ne sono usciti, entrambi, cambiati.Le altre solitudini, quelle che si sfuggono o che si tradiscono, sono delle solitudine originaria pallida immagine. In ogni crocevia c’è la solitudine ad attenderci. Non solo tra un incontro e l’altro ma dentro ogni incontro c’è un rimando a lei, solitudine inquilina. Mai sfrattabile dal cuore umano e dagli occhi che ne serbano la voce del silenzio. Non è l’isola e neppure una parentesi tra l’abbraccio. E’ semmai l’esitazione che lo precede e l’accompagna. Fedele compagna dei giorni. Ci siamo trovati, un giorno, s-coperti, voluti, nella vita terrenale, senza averlo scelto. Ferita originaria che di colpo spazza via ogni futuro tentativo di autonomia, della quale l’occidente sembra diventato drammatico detentore.

Lo smarrimento o la dimenticanza dell’orgine ha conseguenza decisive su ogni tipo di relazione e di amore. Saranno falsificati malgrado i tentativi, senza futuro, di crearsi a propria immagine e somiglianza. La solitudine ac-compagna, fedelmente, la famiglia come chi vive altrimenti la nuzialità. Il dramma consiste nel rompere il vincolo della dipendenza filiale che ogni volto ri-vela. Le strategie di fuga non mancano e neppure i mezzi per tentare di cancellarla. Rinnegare l’originale relazione di figliolanza condurrà alla perdita delle altre relazioni umane. Per uccidere, fin dal grembo materno fino alle guerre di occupazione, bisogna prima aver mutilato la solitudine del mistero filiale. Non ci sarà futuro nella famiglia e nelle relazioni amicali finché la ri-fondazione originario, creaturale, non sarà ac-colta e rinnovata. La solitudine filiale, assunta, permette l’incontro autentico e sempre nuovo con l’altro.

Incontrare l’altro nel profondo

Siamo il frutto di una relazione umana, tra donna e uomo. Consenziente, imposta, subita o scelta, non siamo pensabili al di fuori di questa relazione originaria. Ci costituisce ed è il contesto della nostra perenne identità. Dalla relazione veniamo, nella relazione viviamo e verso la relazione definitiva andiamo. Non è dunque pensabile o se sì, è aberrante, considerare il singolo, l’individuo reso monade, isola, separato dalle relazioni che come lo hanno fatto lo umanizzano.La nostra economia capitalista prende questo paradigma inesistente. I’individuo solo e egoista che si consuma. Un’économia ir-reale, perché pensata a partire dall’egoismo dell’individuo sperduto. Non c’è umano se non nella relazione. Le relazioni ci costituiscono o ci distruggono e sono comunque inevitabili. I crocevia sono luoghi di relazioni perché la strada è stata fatta da qualcuno per qualcosa.

Facendo la strada uno fa all stesso tempo se stesso. Facciamo la strada e la strada ci fa.

Non si cammina mai da soli, c’è sempre qualcuno a cui domandare e qualcuno con cui camminare. Canta e cammina diceva Sant Agostino, cammina e canta. Si canta con qualcuno o per qualcuno. Dall’inizio alla fine c’è la relazione, anche alla morte, qualcuno prenderà cura del corpo, delle ultime volontà, dello spazio provvisorio nel quale essere custoditi. Le memorie sono relazionali, come le date che ricordiamo. Accanto al pozzo, verso mezzogiorno, quando nel caldo non c’è nessuno attorno. L’incontro con la samaritana a cui domandare da bere. Il pozzo dell’altro è sempre profondo e di lui se ne vede solo la superficie. La profondità è ancora da scoprire e da rischiare. L’acqua è profonda  e ci vuole tempo e pazienza per attingerla al pozzo. Mariti inutili e leggi ormai sorpassate dal tempo e dal vento. Così dice la donna cioè l’umanità. Poi c’è la novità dell’incontro e una sorgente possibile. Ogni relazione è una sorgente e il pozzo un crocevia per imbastire matrimoni. Ogni relazione umana è un matrimonio che trova il suo sigillo accanto al pozzo dell’altro. E quando gli amici arrivano e si stupiscono che l’uomo, il maestro, parli alla donna, da soli, vorrebbero che mangiasse qualcosa. Il suo cibo è l’incontro ed è sufficiente a saziare la sete. È nei crocevia che la sete originaria si sente accolta e trova ristoro. All’inizio di tutto c’è la sete che solo nella relazione trova compimento e altra sete. C’è chi cerca la sorgente e chi cerca la sete. Chi cerca quest’ultima non sarà mai sazio e continuetà a scavare nel prondo. La sete chiama la sete  e entrambe si trovano accanto al pozzo dove erano già passati altri assetati. E’ a questi ultimi che appartiene il futuro. Il suo nome è risurrezione, che trasforma la cisterna secca del passato in radicale novità. Questa av-viene nello spazio e soprattutto nel tempo.

Nel tempo

Intesse i giorni e le ore nelle quali l’abbiamo in qualche modo addomesticato. Lui, il tempo, mistero che sfugge e torna non appena ci si dimentica della sua consistenza. Solo le madri e i contadini ne conoscono i segreti. I mesi dell’attesa custodita nel crocevia del grembo e nella terra, seminata. Passa il tempo e nel tempo si forma il volto e le ossa dell’umano. Dal seme che si perde nella terra arriva, lentamente, dalla terra quanto poco gli somiglia. L’amicia è nel tempo e dal tempo trova forma e sostanza. La fedeltà in lui si dipana e talvolta si perde. Le lontananze nel tempo avvivicinano coloro che in fondo non si sono mai allontanati di un passo. Il tempo è crescita e perdita di possesso. Scuola di essenzialità e spogliamento di quanto la vita riveste di effimero. La trappola è quella di fermarsi alla scorza, alla buccia, come ricordava tra gli altri Trilussa. Nelle stagioni della vita si fa esperienza nel tempo. Non è un vuoto contenitore e neppure un pretesto per arrivare in ritardo. Il tempo è riempito di volti, storie e attese. L’attesa vive di tempo e il tempo di attesa. La storia è il tempo tradotto in avvenimenti unici e irripetibili. Solo la distrazione inganna l’apparenza di un tempo uguale. Ogni tempo è inedito, come un nuovo figlio che nasce con occhi liberi di s-guardare il mondo. Il tempo abita nel crocevia dell’ umano. Il tempo si abita, non si commercia e neppure si perde. Il tempo, che è un incontro, solo si tradisce quando non si con-divide. Solo ci appartiene ciò che abbiamo smarrito, scriveva J.L.Borges. Solo il dono permette al tempo di relizzare la sua vocazione nel tempo. I calendari che hanno i nomi dei santi conservano i miracoli ancora da compiere. Caselle postali non raccomandate, per ogni giorno dell’anno.Rendono la realtà possibile da trasformare, loro, che il loro tempo hanno vissuto e abitato da viandanti. Solo così il tempo può camminare, grazie ai nostri passi. Si risorge ogni volta che l’eternità si nasconde dentro il tempo. Morire, allora, è una carezza di amanti, che apre l’altra porta.

La risurrezione

Si chiama Frank, incontrato a Marassi, suo e nostro crocevia. Una stretta di mano e uno sguardo, ciò che non gli accadeva da quando si trovava in carcere. Il cammino, le sbarre, i cancelli e il cambiamento.La prima uscita nella festa di San Lorenzo quando le stelle cadono e si esprime un desiderio. Da Marassi al Porto Antico la distanza è incalcolabile. Il tempo passa di fretta e le poche ore per il rientro si consumano ancora prima. Meno di tre giorni, dalla tomba con la pietra davanti al mare Medterraneo.  La risurrezione è l’unico orizzonte degno di essere menzionato nella vita. Unica frontiera che valga la pena di essere abitata. Le risurrezioni accadono quando ci sono occhi per accoglierle. I crocevia sono frontiere che camminano a seconda delle stagioni e dei venti. C’erano sette cancelli da aprire prima di raggiungere il reparto dove Frank era custodito. Per risorgere basta passare sette cancelli e una porta d’entrata.

Un detenuto stava per essere trasferito alla cella e c’era con lui un membro

della polizia penitenziaria che era anche sovrintendente. Stavo iniziando il

mio servizio di pulizia quando il sovrintendente mi chiamò e disse:’questo

è il tuo lavoro fuori’. Guardando il detenuto che era un tossicodipendente

notai come egli fosse senza speranza e virtualmente morto!

Qualcosa mi ha colpito: far soldi distruggendo vite umane…di colpo ho

capito quanto pericoloso fosse vendere droga.

A partire da questo momento la mia vita è cambiata per sempre. Presi

subito la decisione di fare qualcosa non solo per me ma per altri Africani

e Nigeriani in particolare che si trovano coinvolti in tossicodipendenze e

prostituzione.

  • (E.Frank)

Frank ha messo per iscritto in un libro, Ombre Bianche,  il suo cammino di trasformazione. La risurrezione si è scoperta al quotidiano, nel carcere, luogo che semina mortalità nella memoria del passato. Perdere per trovarsi altrimenti. Sono questi i crocevia che segnano l’umano sentiero della vita. Tutto comincia infatti dallo sguardo. Solo uno sguardo trasformato trasforma e risorge quanto era stato decretato  inutile o dannoso.

I poveri si trovano, da sempre, in questa categoria. Abbandonati sul bordo del cammino e, se possibile, senza fare rumore. Mentre Bartimeo, cieco di Gerico, lui grida e rigrida per i passanti che lo vogliono mettere a tacere. È bastato un gesto d’attenzione, un invito, una parola e uno sguardo. Entrambi hanno comincato a vedere. Bartimeo è risorto quando si è messo in piedi e ha buttato il mantello che ricopriva la nudità della parola. Ogni risurrezione cominicia con uno sguardo e una parola. Un invito e una mano che rialza. La risurrezione è il senso di ogni crocevia.

Noi non vediamo il mondo com’è. Noi lo vediamo come siamo. (Anais Nin)

  • MAURO ARMANINO.
  • Niamey, novembre 2015.


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