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Charre, 15 dicembre 2015.

0. Savana padana.

Il giorno prima di partire di nuovo per l’Africa ho chiuso la valigia a metà mattina. Arduo decidere cosa prendere e cosa lasciare: fare la valigia genera dubbi amletici ed è - a modo suo - metafora della vita. Se la vita pesa 30 kg, salame e parmigiano-reggiano hanno un loro peso ontologico che ha più a che fare con l’essere che con il non essere.

È la seconda metà di ottobre: autunno cominciato, sole pallido segue a giorni di cielo uggioso. Dopo avere salutato la gente, è doveroso salutare la terra, gli alberi e il fiume. Cosi prendo la bici in direzione del ponte vecchio, dove la canoa è rimasta in questi tre mesi. Scendo dall’argine, con le file dei pioppi sulla destra che scivolano via mentre cominciano a lasciare cadere le prime foglie. Il fiume è una meraviglia, forse perché c’è il sapore di un arrivederci che, data la distanza di tre anni, può avere anche alcuni tratti dell’addio. Il calore del sole si riflette sull’acqua e dopo pochi minuti tolgo la maglia. Metto dentro gli ultimi raggi di sole padano. Le braccia remano l’acqua, mentre la testa e il cuore remano il tempo. Le braccia remano in avanti. Testa e cuore remano all’indietro. Remano tre mesi trascorsi nella terra che mi ha generato, con i volti, gli incontri e le storie che si portano dentro. Remano immagini che diventeranno ricordi per quando sarò vecchio, ma che, già adesso, fanno affiorare dall’acqua felicità e gratitudine. In mezzo ad un fiume che si chiama Po. È un attimo e, d’improvviso, diventa Zambesi. Perché i fiumi comunicano tra di loro e bevono la stessa acqua.

E per raggiungerli non serve l’aereo. Allora, pianura padana diventa savana. Savana padana.

1. Di nuovo paura.

Mi fermo tre giorni a Dondo. Poi, con p. Nicola partiamo verso nord. Dopo nove ore di viaggio siamo in prossimità delle rive dello Zambesi. Il battello a motore sul quale siamo soliti caricare la macchina per attraversare il grande fiume tra Sena e Mutarara quel giorno non funziona. Così siamo costretti ad allungare il percorso attraversando prima lo Zambesi a Caia e, dopo avere aggirato il monte Morrumbala, a superare il fiume Chire con il battello a trazione manuale. Nei pressi del villaggio di Sabe constatiamo che per strada non c’è anima viva. Va bene che sono le due del pomeriggio e c’è un caldo terribile, ma 10 km senza vedere né umani, né capre, né galline è piuttosto insolito. Notiamo anche che le capanne hanno le porte chiuse con il lucchetto. Arrivati a Sabe, un gruppo di militari ci ferma con il kalashnikov spianato. Ci fanno scendere e vogliono perquisire la jeep. Dicono che alle tre del mattino c’è stato uno scontro armato tra esercito regolare e uomini della Renamo. Ci sono stati morti e feriti: per paura, la popolazione locale ha cercato rifugio nella foresta. Poi i militari ci lasciano ripartire.

Il giorno successivo provo a cercare un po’ di informazioni su quanto accaduto a Sabe. Le uniche fonti che accennano qualcosa sono la pagina in portoghese dell’agenzia di stampa tedesca (DW) e due blog mozambicani che parlano di scontri e morti nel Distretto di Morrumbala. La stampa mozambicana – allineata e coperta sulle posizioni del Governo e della Frelimo – tace il tutto. Fino a quando dopo due giorni, di fronte all’evidenza dei fatti, il Ministro degli Interni ammette quanto successo. La situazione non è tranquilla da fine settembre, quando per due volte hanno tentato di ammazzare il leader dell’opposizione. La chiamano “guerra a bassa intensità”. È cominciata tre anni fa e ogni tanto riprende con maggiore o minore violenza. Le parti in gioco sono le stesse di sempre: Frelimo e Renamo che, dopo avere fatto un milione di morti in sedici anni di guerra civile e dopo avere firmato gli accordi di pace nel 1992, oggi si contendono la spartizione delle immense ricchezze naturali del paese.

2. Di nuovo Charre.

Dopo 600 km e dodici ore di jeep eccoci di nuovo a Charre. È l’ora del tramonto. Apro la porta della stanza: uno strato di sabbia portata dal vento copre il letto, la scrivania e il pavimento in cemento. Sento un crepitio da dentro l’armadio a muro. Apro e trovo le termiti che hanno già divorato due scatole di cartone. Provvidenzialmente, non hanno ancora attaccato lo scaffale dei libri. Il giorno successivo gonfio le gomme della bicicletta e vado a spasso per il villaggio a salutare la gente. I bambini corrono dietro alla bicicletta spingendola sulla strada sabbiosa e gridano: «Baba Andrea abwera!», «Padre Andrea è tornato!». Anche gli adulti sono felici: «Baba mwabwera? Takutsukwani! Mwasya tani mai na pai anu?», «Padre sei tornato! Avevamo nostalgia. Come hai lasciato tua madre e tuo padre?». Rispondo che anche io ho avuto nostalgia e regalo alcune foto fatte ad alcune famiglie di Charre prima di partire. Dico che i miei stanno bene, ma mia madre «ali kubva kupha myendo», «ha male alle gambe». Sorridono e chiedono: «Azungo asabvambo kupha myendo?», «Anche i bianchi hanno male alle gambe?».

È il tempo del grande caldo. Dopo pranzo si arriva ai 42 gradi in casa. Il corpo umano ha sei gradi di meno. Così gli oggetti sono per forza caldi: il bicchiere per bere, il materasso per coricarsi, l’acqua del rubinetto per lavarsi i denti. Dopo pranzo, dopo avere preso il caffè, ci si siede e che si fa? Si suda. Impossibile fare altro. Al pomeriggio si alza il bangwe, il vento secco e potente che viene da sud. Fa lievitare dal suolo nuvole di sabbia che dipingono di giallo le foglie degli alberi, l’aria, i volti dei bambini.

Lo Zambesi al posto del Po. Il bao-bab che sta mettendo le foglie al posto del pioppo che le sta perdendo. Le capanne di mattoni in terra cotta e paglia al posto delle fabbriche dismesse per la crisi economica. I bambini che spingono la mia bicicletta sulla strada sabbiosa al posto delle mie quattro nipotine portate a spasso in bici assieme a mia sorella. Ho portato nel cuore e sono stato portato nel cuore.

3. Di nuovo la gente.

Anche quest’anno la stagione delle piogge tarda ad arrivare. La luna di novembre è passata e il cielo ha centellinato poca acqua sufficiente solo a togliere la sabbia dall’aria per due giorni. La gente ha pazienza e aspetta. Nel frattempo ha preparato i suoi campi. Ore sotto il sole, prima a zappare e poi a scavare i buchi dove verrà collocata la semente appena sarà caduta la prima vera pioggia. Kubzwala è il seminare dopo la pioggia.  Mentre kupalira è il seminare prima della pioggia. Generalmente si preferisce la prima modalità, dato che seminando prima c’è il rischio che il seme germogli, ma poi il grande sole secchi la pianta.

In questi mesi la vita è andata avanti. Per qualcuno ha preso altre destinazioni. Pochi giorni prima che arrivassi hanno sepolto pai Enfermeiro, il signore lebbroso della lettera n°13. Aveva cominciato la cura contro la lebbra a dicembre dell’anno scorso. Una volta al mese andavo all’ospedale di Mutarara a ritirare le pastiglie che avrebbe dovuto continuare a prendere per un anno. Avevamo fatto una visita la settimana prima che partissi per le ferie ed era entusiasta perché dopo sette mesi di terapia la malattia si era bloccata. Durante la mia assenza avevo lasciato la terapia ad una persona di fiducia. Ai primi di ottobre è stato colpito da una malaria che forse ha trascurato e in pochi giorni è morto. A causa della malattia, con gli anni, aveva perso mani e piedi. «Ndisafamba na matako» - «cammino con il culo» - affermava sorridente e compiaciuto. Nonostante questo, aveva un piccolo orto attorno alla sua capanna dove coltivava un po’ di fagioli e verdura. A modo suo, impugnava con i polsi una piccola zappa e aveva segnato sulla terra dei sentieri fatti su misura per il suo... matako. Pai Enfermeiro era tanto più potentemente attaccato alla vita di quanto la lebbra fosse attaccata alle cellule del suo corpo.

Una sera di metà novembre, dopo il tramonto, assieme alla moglie, bussa alla porta pai Felix, il signore “che porta la speranza nel nome e nel sorriso” della lettera n°14. Con i volti visibilmente preoccupati, chiedono di accompagnare all’ospedale rurale di Mutarara la loro nipotina di quattro anni Chica, colpita da una forte malaria. Prendo la macchina e partiamo. Vengono anche i giovani genitori che nei 15 km di viaggio mi spiegano che il giorno prima il padre ha già portato la bambina in bicicletta all’ospedale. Le è stata somministrata la terapia antimalarica, ma non ha sortito effetti. La febbre forte è invece peggiorata. Arrivati all’ospedale, entro anche io per sincerarmi che la bambina venga visitata. Con il respiro affannato, la sistemano a pancia in su sopra un letto troppo grande per i suoi quattro anni. Lasciamo Chica all’ospedale assieme ai genitori, mentre io torno a casa assieme ai nonni. Fuori, notte e polvere di vento. In macchina, silenzio. «Tiri kuphembera, baba», «Stiamo pregando, padre». Mentre sto andando a dormire ascolto pianti a distanza nel silenzio della notte. Un presentimento. «Ma no, non sarà lei», mi dico. All’alba pai Felix è già a casa nostra. Mi dice che due ore dopo essere tornati a casa, è arrivata la telefonata del figlio che comunicava la morte di Chica. È sabato mattina, c’è un caldo tremendo e la famiglia decide di fare subito il funerale. Tra la capanna e il cimitero ci sono poche centinaia di metri. Sole alto spietato, espressione immobile dei volti, indumenti poveri intrisi di vita e di sudore, sabbia gialla alzata dai piedi, quattro assi di bara coperte da un lenzuolo bianco.

Nascondo le lacrime alla mia gente e chiedo a Dio perché.

4. Di nuovo si alza la testa.

È il tempo delle ultime visite alle nostre 76 comunità. Un sabato di vento e sabbia da colorare di giallo l’aria, a Merkano inauguriamo la nuova cappella e la comunità ammazza una mucca per la festa. A Nyaeka invece, la settimana successiva, sono sufficienti tre capre. Riprendiamo anche i lavori di Giustizia e Pace. A fine novembre organizziamo un incontro con le Commissioni delle due parrocchie di Charre e di Nyangoma per fare il punto della situazione sull’anno trascorso e per programmare il lavoro di quello venturo.

Primo fronte: la questione della terra sottratta ad alcune comunità da parte di una multinazionale indiana per impiantare la monocultura della canna da zucchero. Senza consultazione pubblica, senza assenso da parte delle famiglie interessate e senza indennizzo, come invece previsto dalla “Legge della Terra”. Nei tre mesi di ferie, ci sono state due novità sostanziali. Prima novità. Il progetto di espropriazione della terra continua, ma non sarà più per produrre canna da zucchero, bensì riso e fagioli. Con le piene di Chire e Zambesi a inizio anno, l’investitore straniero ha perso buona parte del raccolto e dei macchinari, constatando che sono  venute meno le condizioni per un ulteriore investimento. Ha così venduto la licenza ad un’altra impresa della quale per ora non conosciamo né nome, né provenienza. Quest’ultima, nel mese di agosto, ha già cominciato ad occupare alcuni terreni delle comunità locali, allontanando le famiglie residenti, ma spostandosi di qualche centinaio di metri dalle rive del fiume Chire rispetto all’impresa precedente per evitare le conseguenze delle esondazioni.

Seconda novità. A giugno avevamo consegnato un documento all’Amministratrice del Distretto. La signora Palmira Pinto aveva accettato la proposta di porre il Distretto (in Italia equivarrebbe alla Provincia) come soggetto di mediazione tra le famiglie espropriate e l’impresa. Nel caso la via diplomatica non fosse andata buon fine, le avevamo comunicato che saremmo ricorsi alla via legale con l’appoggio degli avvocati. Tornato dalle ferie, dobbiamo riprendere i contatti. Ma, stavolta, con l’Amministratore. Al maschile. Non solo se ne è andata la signora Palmira Pinto, ma, dopo di lei, è arrivata e se ne è andata una seconda nuova Amministratrice. E ora, al suo posto un nuovo Amministratore. Il tutto in soli tre mesi.

Secondo fronte: la questione del legname tagliato da un’impresa cinese in un’area dove abbiamo sei comunità. Prima di partire per le ferie ero venuto a conoscenza del fatto che l’impresario cinese avrebbe dato sottobanco un valore di 500.000 meticais (circa 10.000 euro) al capo del Dipartimento dell’Agricoltura del Distretto di Mutarara per aggiudicarsi una licenza irregolare per tagliare alberi di chanfuta, ebano e pau ferro. Una parte sarebbe andata a due capi villaggio che, ricevuta una moto ciascuno, avrebbero autorizzato lo sfruttamento delle loro terre, senza la consultazione comunitaria come invece prevede la legge. Questo spiegherebbe il perché fino ad ora non si sappia nulla di quel 20% della tassa pagata allo Stato da parte dell’impresa che la legge mozambicana stabilisce debba essere fatta pervenire alla comunità locale sotto forma di progetti di sviluppo sociale. E di come, allo stesso modo, non si sappia nulla di quel 15% che dovrebbe essere utilizzato per il rimboschimento. Non si sa nulla, semplicemente perché la tassa non è stata pagata. Che sia un caso di corruzione pare evidente. Il problema è dimostrarlo. Pai Emílio, responsabile di Giustizia e Pace di Charre, sostiene che «pinthu pya ndi mwe mwene pinabuluka pa kwecha». Che pressappoco significa «la verità viene fuori da sola». Bisogna mettere l’Amministratore del Distretto con le spalle al muro, in modo che sia lui stesso a chiarire il perché risultino ancora non pervenuti il 20% alla comunità e il 15% per il rimboschimento.

Cambiano gli Amministratori. Cambiano i volti dei politici che mettono le loro tasche e gli interessi del partito al di sopra della vita della loro gente. Cambiano i nomi delle società di investimento e delle imprese multinazionali. Non cambiano i meccanismi di sfruttamento, di espropriazione e di corruzione a danno dei più poveri. Ma non cambia nemmeno la determinazione e la perseveranza di chi è stanco di essere calpestato e ha deciso che è arrivato il momento di alzare la testa.

Per concludere: novità in buone mani.

Questa lettera sarebbe finita così. Invece no. Perché - quasi ultimata la lettera - ho preso atto che questa sarebbe stata l’ultima lettera scritta da Charre. Questione di novità. Perché ci sono novità che – pur essendo nuove – sono pur sempre previste e attese. Il fatto che domani si alzerà il sole, che la nostra gente andrà in campagna con la zappa nella mano e con il desiderio della pioggia nel cuore, che appena esco in bicicletta una decina di bambini cominceranno a corrermi dietro gridando felici, che lunedì come ogni lunedì mia madre e mio padre mi chiameranno, che se domani incontrerò mãe Virgína per strada, la nostra conversazione terminerà con lei che guarda verso il cielo ed esclama: «Mulungu ndi mphambvu yathu», vale a dire «Dio è la nostra forza», che questo fine settimana come ogni fine settimana mi recherò in alcune delle nostre tante comunità, parleremo dei loro problemi e punti di forza, celebreremo l’Eucaristia e termineremo il tutto con il pranzo a menù fisso a base di polenta di miglio e gallina mangiati rigorosamente con le mani.

Poi, oltre alle novità previste ed attese, ci sono anche quelle che arrivano all’improvviso. Né previste, né tantomeno attese. Come quella di dieci giorni fa. Un confratello che lavorava a Chemba - a sessanta km da qui, ma dall’altra parte dello Zambesi - è dovuto tornare in Italia. A me è stato chiesto di lasciare Charre per andare a Chemba, a partire dai primi giorni di gennaio.

Tempo fa avevo appeso all’armadio della mia stanza un foglio con queste parole: «Io devo potere avere la certezza di essere nelle mani di Dio. Poi tutto diventa leggero». A scriverle fu il pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer. Le scrisse il 22 dicembre del 1943 dal carcere di Tegel, dove era prigioniero per essere parte della Resistenza al Male hitleriano. Era in carcere dall’aprile dello stesso anno e in quella lettera manifestava ancora la speranza in una liberazione prossima. Venne impiccato nel campo di concentramento di Flossemburg il 9 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della seconda guerra mondiale.

Poche volte nella vita, come in questi giorni, sto facendo mie queste parole. Erano lì appese da tempo. Ora le sento nuove, come lette per la prima volta. Perché una cosa è dirci che siamo nelle mani di Dio. Un’altra, è sperimentare che siamo nelle mani di Dio.

Tra qualche giorno sarà Natale. Dio è uomo. Mette i suoi piedi sulla nostra strada e ci cammina incontro. Al tempo stesso, già ci sta prendendo per mano. Anzi, siamo nelle sue mani. Allora tutto diventa leggero.

  • BABA ANDREA.


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