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PADRE BEPPE PULCINI / “ENCICLICA” DI UMANITÀ

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Giuseppe Pulcini – Beppe per gli amici – era un missionario saveriano, originario di Gavarno di Nembro (Bg), dov’era nato nel 1950. Entrato nell’Istituto da giovane seminarista del Seminario di Bergamo, vi percorse tutto l’iter formativo dal Noviziato a Nizza Monferrato (At) fino all’ordinazione presbiterale a Parma nel 1977. Dopo alcuni anni (1978-1985) come formatore dei ragazzi nella “scuola apostolica” di Udine, fu destinato al Camerun-Ciad, dove trascorse il resto della vita fino all’improvvisa morte, avvenuta il 16 aprile 2021, mentre era in piena attività come parroco di Oyom Abang, nella periferia di Yaoundé. 

UNO SPICCATO SPIRITO DI FAMIGLIA

Quella di Beppe è stata una parabola di vita semplice, ma densa, tutta concentrata – meno i sette anni a Udine – nell’esperienza in Camerun-Ciad. Era “un prodotto tipico” delle “case apostoliche” saveriane in Italia, scrive il confratello Tonino Melis, per alcuni anni suo compagno di missione. La famiglia saveriana era per lui importantissima, come dovrebbe essere per chi si sposa e forma famiglia; ma lo spirito di famiglia e di appartenenza alla congregazione gli proveniva anche dal vissuto umano e cristiano della famiglia nativa – 7 fratelli –, come giustamente ricorda un altro confratello, Jesús Manuel Calero, spagnolo: “Gli piaceva molto parlare con e della sua famiglia, per la quale nutriva amore e passione. Ammirava la figura del padre, gran lavoratore ma soprattutto uomo di profonda fede. Stimava i suoi famigliari, dai quali diceva di aver imparato molto. Parlava dei suoi fratelli e soprattutto di sua sorella, che per lui è stata quasi come una madre, attenta e disponibile”. 

“Il suo amore per la famiglia saveriana – aggiunge Melis – non aveva limiti, io invece ero entrato nei saveriani da adulto, dopo l’università, e non avevo una grande esperienza saveriana, per cui il mio legame con la famiglia saveriana non è mai stato così forte”. E prosegue lo stesso Melis: “Ho conosciuto Beppe a Parigi nel settembre 1985, quando ci siamo trovati per lo studio della lingua francese, prima di partire per il Camerun-Ciad. Io destinato al Ciad e lui al Camerun, ma entrambi presso il popolo Massa, che le frontiere coloniali avevano diviso nei due paesi creati dai francesi”. 

Detto altrimenti, Beppe era “un saveriano convinto fino in fondo – ricorda il confratello spagnolo Angel de la Victoria –, orgoglioso di esserlo, un fratello tra i fratelli, molto apprezzato per il suo giudizio, la sua discrezione, il suo stile, la sua vicinanza e prossimità a tutti. Più volte è stato proposto come superiore regionale, ma non gli piaceva stare in alto, avere incarichi di responsabilità, preferiva che lo facesse qualcun altro; è rimasto sempre al secondo posto”.

NULDAYNA: IL SUO “PRIMO AMORE”

“Siamo arrivati in Africa a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro – racconta ancora Melis –; io ero andato subito nella missione di Koumi (Ciad) per imparare il massa da un padre oblato francese che conosceva bene la lingua. Beppe mi raggiunse dopo un mese e stette fino a Pasqua, per tornare dopo le feste. Il p. Jean Goulard ci ha trasmesso l’amore per il popolo Massa tra cui viveva da decenni e tantissime cose utili per la pastorale presso questo popolo, che conosceva in profondità. Beppe poi volle passare un periodo di full immersion in un villaggio massa, Magaw, dove allora nessuno parlava il francese. Fu per lui una bella esperienza […]. Poi ognuno è andato per la propria strada, io a Bongor, lui a Nuldayna, che faceva capo alla missione di Gobo e Jugumta, dove risiedevano altri due confratelli durante la settimana per poi ritrovarsi insieme la domenica pomeriggio fino a mercoledì mattina. Erano scelte dettate dalla situazione linguistica, perché le tre missioni avevano altrettante lingue diverse. Poi Beppe dovette lasciare Nuldayna per Jugumta. Ci andò a malincuore. Per lui non fu una bella esperienza. Non ne parlava mai, se non per dire che nella stagione delle piogge si sentiva molto isolato e che i Gizey sono molto più chiusi dei Massa. Finalmente ci ritrovammo insieme a Bongor per qualche anno. Beppe era un patito della missione, del lavoro pastorale. In comunità un confratello modello, con cui era difficile aver conflitti. Si adattò bene, ma la sua salute lo faceva soffrire, soprattutto nel periodo più caldo dell’anno”. Ciò nonostante, ha sempre desiderato stare al Nord, rifiutando varie proposte al Sud del Camerun. Perfino quando è rientrato in Africa, dopo la malattia  e l’anno di cure in Italia, è tornato al Nord. Era convinto che al Nord nessuno gli avrebbe rubato il posto: “Non ci sono resse per andare in quei posti!”, soleva ripetere. Posti come Nuldayna, il suo primo amore! 

A proposito, la sorella saveriana, Imelda Sartore, attualmente missionaria a Koumi, ricorda: «Non eravamo lontani, anche se il fiume Logone separa i due paesi (Camerun e Ciad). Tutte le volte che ci incontravamo lo scambio e la fraternità non mancavano. Due anni fa l’ho incontrato anche a Yaoundé e mi ha detto: “Imelda, qui c’è tanta gente e il lavoro è immenso” e mostrava di essere contento, anche se subito dopo chiedeva notizie del Nord Camerun e del Ciad, delle persone che aveva conosciuto e che seguiva con riconoscenza. Lunedi 19 aprile, alcune di queste persone erano presenti alla santa messa celebrata nella zona di Bongor, per ricordare padre Beppe. Jacqueline, una mamma di Bastebè (dell’etnia massa), grande collaboratrice nella pastorale, quando mi ha visto si è gettata su di me in lacrime e mi ha detto: “Imelda, padre Beppe fa parte della mia famiglia ed è come se mi avesse lasciato uno dei miei figli”».

INNAMORATO DELLA GENTE

“Beppe – riferisce ancora Melis – lavorava con entusiasmo alla vigna del Signore. Si è speso tutto, nonostante l’ipertensione che lo faceva soffrire soprattutto nei mesi del gran caldo di marzo-aprile. Però sapeva anche prendersi i momenti di riposo che gli erano indispensabili. Forse a causa della sua salute aveva difficoltà a dormire fuori casa. Mentre io passavo ogni settimana dai tre ai quattro giorni nei villaggi, dormendo e mangiando con la gente, Beppe tornava sempre a casa. Credo che l’unica volta che dormì in un villaggio fu quando studiava ancora la lingua e venne con me in un villaggio oltre il fiume (aveva il terrore dell’acqua e quindi della piroga!). Era aprile e mi ricordo che dormimmo in cortile su una stuoia mentre i maiali circolavano alla ricerca dei resti di cibo della cena. Non credo abbia mai ripetuto l’esperienza. Di lui mi resta un caro ricordo e una nostalgia di serate dopo cena passate sotto le stelle a commentare i fatti delle nostre relative missioni, a raccontare aneddoti dei nostri amati Massa, ma anche a scambiarci notizie sul nostro lavoro pastorale. Eravamo molto diversi, ma anche molto complementari, per questo siamo stati bene insieme”.

“Beppe – sostiene de la Victoria – amava le persone, era un uomo felice, molto vicino alla gente, gli piaceva andare nei villaggi, visitare la gente nelle case e questo lo aiutava a fare amicizia con tante persone. Mi sorprendevano la sua serenità e la sua saggezza”. Anche nella sua ultima parrocchia, a Oyom Abang, Beppe “ha continuato con la sua buona abitudine di visitare le persone, i malati, sedendosi a parlare con loro, ascoltando i loro problemi e lasciandosi coinvolgere da loro. Con lui non c’erano orari d’ufficio o giorni liberi”. E sempre de la Victoria attesta: “Una delle sue più grandi frustrazioni era la sensazione di non riuscire a comunicare con le centinaia di giovani che partecipavano alla vita della parrocchia. Mi disse che non sapeva usare il linguaggio proprio dei giovani, nonostante fosse sempre circondato da loro. Eppure era loro molto vicino, sostenendoli come poteva, pur provando rammarico per non riuscire a comunicare alla pari”. Una delle perle del suo apostolato è stato comunque l’accompagnamento di giovani coppie che per lo più vivevano insieme senza essere sposati in chiesa.

UN SILENZIO CHE PARLAVA

Beppe “era un uomo profondo, con le sue idee – ammette de la Victoria –, ma non amava monopolizzare il dibattito”. Lo si evince anche dal fatto che, per animare ritiri e incontri, cercava la collaborazione di altri, preferendo servire stando ai margini, al “secondo posto”. La sua semplicità e umiltà erano frutto anche del suo silenzio e della sua preghiera: “In mezzo ai suoi impegni l’ho visto molto spesso trascorrere in cappella lunghi tempi di silenzio e preghiera – dichiara de la Victoria –, soprattutto di notte, dopo il trambusto della giornata”. E un altro confratello della comunità di Oyom Abang, Gilbert Mbula, congolese, conferma: «Non era un uomo di molte parole, ma durante le due ultime settimane era diventato particolarmente silenzioso. Non rispondeva male a nessuno, non si lamentava di niente. Ricordo le parole scambiate per l’organizzazione della Settimana santa. Siccome mi ricordava spesso che ero giovane, sentivo che mi voleva dire: “hai ancora molto da imparare”. Allo stesso modo, mi invitava a non scoraggiarmi per il mio lavoro in comunità, con la gente della parrocchia e mi diceva: “devi avere molta pazienza”; e ancora: “la gente deve imparare a fare senza di noi, deve prendere delle iniziative, perché noi oggi ci siamo e domani non ci siamo più, ma devono imparare a camminare da soli”. Ecco perché, in molte situazioni rispondeva col silenzio, per dare agli altri l’opportunità di esprimersi».

“ENCICLICHE” DI UMANITÀ

Beppe era dotato di una grande umanità, che si esprimeva anche nella convivialità a tavola: «Bastava poco per renderlo felice – riferisce ancora de la Victoria –: un buon piatto di spaghetti, una fetta di salame o un pezzo di formaggio, un bicchiere di buon vino. A proposito, avevamo creato addirittura un linguaggio, che pochi intimi capivano. Quando qualcuno di noi andava in ​​vacanza era invitato a tornare con le ultime “encicliche” – salumi, formaggi, qualche buona bottiglia... A volte, a metà mattinata, mi mandava un sms: “enciclica”. Era l’invito ad andare in sala da pranzo per gustare, seduti, qualche affettato o formaggio, dell’ultima “enciclica” arrivata dalle vacanze di qualcuno». 

Beppe sprizzava umanità anche con la sua serenità e il suo sorriso, mantenuto anche nell’ora della prova. Testimonia Mbula: “Fino all’ultimo momento – anche in ospedale, la sera prima della sua partenza – abbiamo scherzato, abbiamo condiviso delle storie sulla comunità, sulla vita dei gruppi e delle persone della parrocchia”. 

Umanissima e umanizzante anche la sua capacità di chiedere scusa, perdono: «Non poteva andare a letto senza stare in pace con tutti – aggiunge ancora Mbula –. E poi, io ricorderò sempre quel viaggio verso l’ospedale il giorno prima di morire: “Ti chiedo scusa per tutto, ti chiedo anche scusa per disturbare le tue attività”».

ARRIVEDERCI BEPPE, GARIYAMMA!

“Gariyamma” (ippopotamo) è il soprannome che i Massa hanno dato a Beppe, dopo qualche mese dal suo arrivo in Ciad, vedendolo così robusto e forte, con molto appetito, soprattutto confrontandolo con il mingherlino Tonino Melis. Eppure questo missionario “ippopotamo” era la persona più discreta del mondo, vicina a tutti, soprattutto ai poveri, senza essere ingombrante. «Padre Beppe – scrive ancora la sorella saveriana Imelda Sartore – era un uomo che sapeva collaborare e dare spazio a tutti. Abbiamo lavorato per qualche anno con lui ma non si poneva in primo piano e metteva ciascuno a proprio agio. Diceva: “Anch’io non conosco tutto – proviamo e poi Dio ci mostrerà la strada”». È dunque pienamente giustificato il soprannome “Gariyamma” assegnato a Beppe dai Massa, soprattutto se inteso come umanità traboccante, che paradossalmente si spegne senza far rumore, quasi chiedendo scusa per il disturbo che sta arrecando alle attività pastorali e comunitarie dei confratelli. Arrivederci Beppe, “Gariyamma”!



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