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Forum "Guai a voi, i Poveri!", Interventi

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SILVIO TURAZZI, missionario saveriano

In Italia siamo già un popolo “misto”, le discriminazioni ci sono, è giusto conoscerle, combatterle, andare oltre. Viviamo in un mondo con prospettive inedite, grazie ai nuovi sistemi di comunicazione. Certo, dobbiamo difendere determinati valori, ma mi piace sottolineare la positività delle nuove prospettive, richiamandomi all’intervento della dott. Protopapa: non è importante essere italiani o meno, ma sentirsi cittadini del mondo. Seppure legato a un territorio, a una cultura, la mia umanità oggi respira la mondialità. Questo è l’enorme passo che l’umanità sta oggi faticosamente facendo. Credo nell’uomo e nel futuro.

PIERRE SHAMAVU, studente saveriano

Vorrei fare una domanda “inutile”: perché nel mondo ci sono ricchi e poveri? Perché tanta gente è costretta a lasciare la propria terra in cerca di pane? Sì, è vero che Gesù ha detto che i poveri li avremo sempre con noi, però mi sembra strano che in Italia una famiglia giovane non si possa permettere un appartamento. Non siamo forse vittime di un sistema economico predatorio? Anche in Africa ci chiediamo se non si stia diffondendo un sistema mondiale di sfruttamento.

JEAN BWIZA, studente saveriano

Anch’io vorrei fare una domanda “inutile”, partendo dal Convegno dell’anno scorso: “Stranieri e migranti, profeti di una nuova umanità”. Mi chiedo, cioè, se abbiamo capito davvero che cosa significa essere profeti. Mi pare che quest’anno “Missione Oggi” abbia fornito un inizio di risposta, proponendo il tema “Guai a voi, poveri!”, indicando nei poveri – come del resto ha fatto l’anno scorso con gli stranieri – i profeti di una nuova umanità. Mi chiedo però se la rivista è consapevole dei guai cui vanno incontro i profeti. In altre parole, “Missione Oggi” da che parte sta, dei poveri o dei ricchi? E si può parlare dei poveri se non si sta dalla loro parte?

GIOVANNI VALPREDA, presidente di onlus operante in Bangladesh

In Italia i poveri hanno vita difficile, ma è diventato difficile anche aiutarli, soprattutto se non sono italiani. Mi riferisco alla burocrazia, ai controlli assurdi, agli infiniti adempimenti che riguardano le onlus, come se fossero una grande azienda, di cui ovviamente non hanno le strutture, né tanto meno le risorse. Questo non è casuale. Negli ultimi trent’anni la legislazione che riguarda il volontariato è cambiata totalmente. Stiamo andando verso una cultura che esclude il diverso, perché questi ci ricorda quello che potremmo diventare. È essenziale che ci siano “centri di cultura” come “Missione Oggi” che tentano di invertire questa tendenza.

MANUELA RAVELLI, medico

Nelle conclusioni del suo intervento, il prof. Revelli ha parlato di “indurimento del cuore”. Credo che ciò dipenda dalla percezione diffusa di un’ingiustizia crescente che sta soffocando l’Italia, in particolare le energie dei giovani e forse anche di chi aveva un lavoro stabile e oggi non l’ha più. Paolo VI diceva “non c’è pace senza giustizia”, forse bisogna ripartire proprio da lì per ritrovare un filo che riavvii relazioni se non amichevoli, normali.

MAURO CASTAGNARO, redattore di “Missione Oggi”

Ascoltando i dati esposti dal prof. Revelli mi sono chiesto come mai essi non siano oggetto di una costante discussione pubblica, ma invece sostanzialmente ignorati: non sembrano far parte della percezione soggettiva delle persone. Perché l’impoverimento generale delle classi medie (soprattutto sotto il profilo pensionistico), che riguarda milioni di italiani (se è vero che il 70% sono lavoratori dipendenti), non è al centro della discussione? Inoltre, quanto ha a che fare questa assenza con la rappresentanza politica, rispetto ad una storia in cui gli interessi delle classi subalterne erano ben rappresentati da partiti e sindacati? Infine, mi chiedo se i quasi otto milioni di poveri di cui si è parlato si sentano o meno poveri: la povertà è diventata un fenomeno da negare a se stessi?

GRAZIANO BATTISTELLA

Parto dalle domande “inutili”: perché nel mondo ci sono i poveri? Faccio riferimento a quanto detto da padre Paggi a proposito del sistema gerarchico castale indiano. Anche nell’economia ci sono gerarchie che non è possibile eliminare. È un sistema piramidale, la base ci sarà sempre. Ma se noi alziamo questa base, portiamo gli italiani ad essere meno poveri e qualcun altro subentrerà alla base, magari gli stranieri. Ci sarà sempre una base e sempre più povera.

Per me l’aspetto cruciale è questo: perché io devo essere condannato dalla casualità del posto dove sono nato?

Se sono nato negli Stati Uniti e lavoro otto ore al giorno, porto a casa 100 dollari, se sono nato in Bangladesh e lavoro otto ore al giorno, porto a casa un dollaro. Che cosa è veramente tragico: il potersi muovere o il non potersi muovere? Tra le due alternative, qual è la condanna più grave? Essere migrante o non poter essere migrante? Penso che si possa riflettere in questo senso. Voglio concludere con un riferimento alla citata frase di Gesù: “I poveri li avrete sempre con voi”.

Ora non ricordo esattamente cosa dica il testo greco, ma il punto cruciale è il “con voi”. Il punto non è averli, ma il “con voi”, con noi!

MARCO REVELLI

Le cosiddette domande “inutili” sono molto simili a quelle che si è posto un autore importante, Thomas Pogge, un filosofo tedesco, in un libro pubblicato anche in Italia (Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite, Laterza 2010). Pogge si è chiesto: perché continuano a esserci i poveri? Perché continuiamo a sopportare questa povertà? Come può sussistere una povertà assoluta che riguarda un miliardo di persone e una povertà relativa che ne tocca tre miliardi, nonostante l’enorme progresso economico e tecnologico, i valori morali della civiltà occidentale oggi dominante?

Perché noi cittadini dell’Occidente non troviamo la povertà almeno moralmente preoccupante?

Pogge aggiunge che basterebbe pochissimo, un nulla, per far uscire dalla condizione di povertà assoluta quel miliardo di persone. Basterebbero – afferma il filosofo – 76 miliardi di dollari, che sembrano tanti, ma che sono in realtà solo lo 0,17% del prodotto sociale mondiale. Perché non si fa un sacrificio così piccolo per ottenere un risultato così grande? La risposta è che non lo si fa per molte ragioni. La prima è che i decisori (coloro che hanno in mano il potere) fanno parte del gruppo che sta in cima alla piramide. La seconda è che questo spaventoso divario si situa nella logica del “progresso” tecnologico, il quale, da qualche decennio, concentra ricchezza in alto, fa sì cioè che una piccola minoranza acceleri enormemente sulla via del benessere e una grande maggioranza rimanga indietro. Nelle nostre società, la distanza tra i primi e gli ultimi è cresciuta enormemente.

Tutto ciò fornisce anche la risposta alla domanda del perché questi dati, compresi quelli della povertà italiana, non fanno notizia: perché non entrano nell’agenda di alcuna politica.

Inoltre, lo spettacolo a cui ci siamo abituati, dopo un periodo in cui le distanze sociali sembravano riducibili (tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni ‘80 del secolo scorso), ci offre oggi uno scenario in cui le distanze crescono. La ridistribuzione della ricchezza è diventata un sogno impossibile, al punto da uscire dall’orizzonte delle famiglie, delle persone, della vita. Chi sta in basso si rende conto che non può che rimanere in basso. Quanto all’indurimento del cuore, esso ha a che fare con le ingiustizie e con la sfiducia nella possibilità di rimediarvi. L’ottimismo nei confronti del ruolo del diritto in funzione della difesa dei deboli contro i forti, così ben descritto da Protopapa, è svanito, il meccanismo non funziona più.

Spesso i deboli si mettono di traverso nei confronti di politiche di giustizia verso i più deboli di loro, perché, assuefatti al meccanismo dell’ingiustizia, cercano di risarcirsi dei diritti perduti negandoli ad altri (si pensi, ad esempio, alla questione dell’assegnazione delle case popolari ai rom). Scatta un meccanismo d’invidia sociale che scatena una guerra tra poveri, la rottura del meccanismo di ridistribuzione diventa corruzione del carattere, diventa tossico per la nostra morale condivisa.

Credo che, se non riusciremo a ridistribuire un po’ di ricchezza, a farne arrivare una piccola parte a chi sta in basso, sarà una grande perdita per tutti.

VENERA PROTOPAPA

Mi ricollego a quanto detto dal prof. Revelli nella sua risposta. Penso che una maggior coesione sociale, in luogo dello scalciare gli uni contro gli altri, sia l’unica strada percorribile. Anch’io mi sono chiesta: come mai questi dati sulla povertà in Italia non vengono maggiormente diffusi? Come mai in un paese come l’Italia, in cui ci sono molte categorie svantaggiate (penso ad esempio ai precari), non c’è un mezzo per rendere più stabile la comunicazione e intervenire con più efficacia in vista di un’equa ridistribuzione della ricchezza?



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