Quel “ponte d’amicizia” verso la Birmania
Dal ormai sei anni tre di noi, p. Thierry Kengne, p. Reynaldo F. Tardelly ed io, lavoriamo nella diocesi di Nakhon Sawan, la più grande (per territorio) della Thailandia. Siamo nella zona di confine con la Birmania. Il vescovo ci ha affidato la piccola parrocchia di S. Giuseppe Lavoratore al Km 48. È un villaggio conosciuto con questo nome perché si trova a 48 chilometri da Mae Sot, che è la città più vicina. Il ponte che unisce la Thailandia con la Birmania si chiama Ponte dell’Amicizia ed è il più importante punto di frontiera tra i due Paesi.
Mae Sot è destinata a crescere e a svilupparsi. Il villaggio “Km 48” è in collina, a 800 metri di altitudine, a sud della città, con il confine a non più di tre chilometri in linea d’aria. Tutta questa zona, che costeggia il confine, prevalentemente montagnosa e coperta di foreste, è abitata da gruppi etnici diversi dai Thai, in maggioranza Hmong e Kareen. Ma ci sono anche tanti immigrati birmani, per lo più “clandestini”, perché non hanno permessi di soggiorno. Le virgolette però sono d’obbligo, perché tutti, compresa la polizia, sanno che ci sono e dove sono. La loro presenza, fa molto comodo alla Thailandia. Costituiscono una fonte di manodopera a basso costo sia per le fabbriche sia per le campagne. Infatti, non avendo documenti, non possono far valere i loro diritti e devono accettare paghe molto più basse dei colleghi thailandesi. Si stima che ci siano circa 4 milioni di birmani in Thailandia, per la stragrande maggioranza in questa condizione...
Noi tre saveriani al Km 48, oltre alla responsabilità della cura pastorale della parrocchia di S. Giuseppe, che comprende un centinaio di famiglie quasi tutte appartenenti all’etnia Akha, siamo incaricati anche dell’evangelizzazione di tutta la regione di confine verso sud, fino a Um Phang. Ci dedichiamo all’assistenza di anziani e ammalati, all’istruzione scolastica dei bambini e dei ragazzi. Favoriamo l’integrazione degli immigrati birmani nella società thailandese. Ci troviamo di fronte a esseri umani che, di fatto, dai thailandesi sono considerati di una classe inferiore. Normalmente vivono in quartieri separati dagli altri, una sorta di ghetto, in povere casette di bambù. Molti di loro non parlano la lingua thailandese e molti dei loro bambini non vanno a scuola. La maggior parte lavora come bracciante, ovviamente per paghe da fame.
È una situazione inaccettabile. Per questo, aiutiamo anche alcune delle famiglie birmane più povere donando cibo e medicine. Inoltre, abbiamo organizzato occasioni di incontro tra i nostri parrocchiani e alcuni immigrati birmani. A 40 chilometri a sud del Km 48, c’è il campo profughi di Um Piam, con circa 12mila rifugiati. Personalmente, vado tutte le settimane per celebrare l’Eucarestia (in inglese) per i circa 70 cattolici che vivono lì. Dopo la celebrazione, insegno inglese a un gruppetto di ragazzi buddhisti. In questo campo, i rifugiati sono autorizzati a uscire dalla mattina alla sera per lavorare, a giornata, nelle campagne circostanti. La paga è di 130 baht al giorno (circa 3 euro e mezzo). Nel campo ci sono tre scuole elementari e due scuole medie. Siccome i fondi erano insufficienti, ci siamo fatti carico di pagare il salario di un maestro, e il vescovo quello di un altro.