Quando penso alla morte dei missionari
Quando penso alla morte dei missionari, mi viene sempre in mente san Francesco Saverio. Nei dieci anni della sua permanenza in Oriente aveva percorso le coste dell’India, era arrivato alle isole Molucche (Indonesia) e si era inoltrato fino al Giappone. Poi aveva sognato di entrare in Cina come ambasciatore.
Un mercante suo amico aveva preparato una nave, spendendo quattro o cinquemila ducati in doni preziosi per l’imperatore; ma il governatore di Malacca confiscò la nave e il carico. Allora Francesco partì solo, senza alcun dono, su una nave diretta all’isola di Sanciano, deciso di farsi sbarcare di notte sulle coste della Cina.
Venne l’inverno e le navi dei mercanti, ad una ad una, lasciarono la rada dell’isola. Ne restava solo una. Francesco attendeva invano la giunca cinese che lo avrebbe dovuto portare nel continente.
Il 20 novembre si ammalò. Giacque in una capanna esposta al vento gelido che spirava dal nord. Era rimasto con lui solo un servo cinese, Antonio. Nella notte tra il venerdì e il sabato, il male si aggravò.
Quando spuntò l’alba, vedendo che stava per morire, il fedele Antonio mise nella mano di maestro Francesco una candela accesa. Egli pronunciò ancora una volta il nome di Gesù e poi, quietamente, si addormentò nel Signore. Era il 3 dicembre 1552.
Un biografo del santo, J. Brodrick, così commenta quella morte: "Fu una povera umile morte, accompagnata da angoscia, come conveniva ad un uomo umile e povero, che non poteva pensare che il mondo si sarebbe ricordato di lui".
Riflettevo su questa morte quando, nel 1944, giunse a Parma la notizia che era morto il primo vescovo saveriano, mons. Luigi Calza.
Era il tempo della guerra del Giappone contro la Cina. I cinesi, per rivalsa, avevano condotto i missionari italiani in campo di concentramento. Solo al vescovo fu concesso di ritornare nell’ospedale della missione perché gravemente malato.
Anch’egli morì nell’angoscia di vedere trent’anni di lavoro apostolico distrutto dalla guerra e per non avere accanto a sé i suoi missionari.
Mi riferirono le sue ultime parole: "Non vedrò più i miei missionari... non li vedrò più!".
Altri figli di Mons. Conforti
A p. Marco Ronzani, venuto dalla Cina in Giappone, dovetti io dirgli che la sua malattia non aveva speranze. Stette un momento silenzioso, forse a riflettere. Poi pronunciò sommessamente le parole della Scrittura: "Per noi la vita è Cristo, e morire è un guadagno".Morì nel 1954.
Ho conosciuto un fratello missionario: alto, magro, sempre pieno di attività. Morì a 58 anni, quando io ero missionario in Giappone. Era l’agosto 1961. Si chiamava Giovanni Andreazza.
Mi dissero che, anziché chiedere a Dio la guarigione, fratel Andrea diceva, con tutta serenità: "Ho chiesto al Signore di prendere la mia vita, perché un giovane missionario, sul campo, possa continuare a fare del bene…".
Dopo essere tornato dal Giappone, ho visto morire vari confratelli. Recentemente un’infermiera della Casa di Cura delle Piccole Figlie, qui a Parma, mi disse: "Quanti saveriani ho visto morire: è una cosa commovente vedere la fede che avevano…".
Uno, p. Domenico Bello, era ricoverato nell’ospedale di San Secondo, a Parma. Non c’èra speranza di guarigione. Lui ne era consapevole e accettava con serenità la volontà di Dio.
Eravamo nel 1987. Sua madre era venuta da Salerno ad assisterlo. Dicevano il rosario insieme. Il figlio Domenico rispondeva sommessamente. Una sera si fermò d’improvviso con gli occhi fissi lontano ed esclamò a voce alta: "Sono un figlio di monsignor Conforti… Sono un missionario saveriano!".
La mamma gli chiese che cosa fosse successo. Rispose: "Ho visto una figura luminosa venire verso di me e mi chiedeva, ‘Chi sei?’. Io ho risposto: ‘Sono un figlio di monsignor Conforti... Sono un missionario saveriano!’. Mi ha sorriso ed è scomparsa".
Più recentemente, vorrei ricordare anche mons. Gianni Gazza. Era stato vescovo in Amazzonia, poi superiore generale dell’Istituto saveriano, poi ancora vescovo di Aversa. Nella sua lunga malattia non si è mai lamentato, eppure soffriva tanto.
Operato più volte, non c’era più speranza. Tutti nella Casa di Cura erano afflitti per lui; avrebbero voluto fare qualunque cosa per tenerlo in vita. Ha lasciato nel loro cuore un’impronta di dolcezza e di sereno abbandono in Dio.
Quest’anno, il Signore è venuto a visitarci più volte. Ricorderò solo p. Francesco Bradanini, 54 anni, ancora pieno di energie e di santi propositi. Era stato missionario in Bangladesh; poi aveva svolto l’attività di animatore nelle comunità saveriane di Vicenza e di Alzano Lombardo, Bergamo. Molte persone lo cercavano per la direzione spirituale e per avere consiglio nella loro vita cristiana.
Malato e sotto terapia, a volte presiedeva la Messa per i fedeli nel santuario del beato Conforti, a Parma. Le sue omelie bibliche erano così precise e pratiche che tutti ne erano affascinati. È rimasto tra noi solo pochi mesi, ma in tutti ha lasciato un’impressione indelebile.
Quando, l’ultimo giorno, con il rettore andammo da lui per proporgli di ricevere nuovamente l’unzione degli infermi, padre Francesco accettò contento e non finiva di ringraziare. Si può dire che è morto con il sorriso sulle labbra.
Un confratello, intervenendo durante la Messa di suffragio, disse: "Noi abbiamo pregato molto per la sua guarigione, ma sono convinto che lui non si unì alla nostra preghiera: aveva detto ‘Sì’ al Signore, e basta".
P. Piergiorgio Venturini, nell’omelia, aggiunse: "Qualcuno a volte domanda: ma come li educate voi i saveriani? Ecco, nella vita e nella morte di padre Francesco trovo la risposta: questa è la formazione saveriana".