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Lo tsunami visto dall’altra parte: Mi trovavo lì, quand’è successo

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Dal 18 dicembre 2004 mi sono trovato in Indonesia per un mese. Ho accompagnato i familiari di due saveriani defunti a pregare sulle loro tombe e a portare un generoso contributo per sostenere le opere che i missionari avevano iniziato. La partenza era avvenuta durante le polemiche pre-natalizie: presepio sì o presepio no; Gesù Bambino o un altro simbolo, per rispetto ai non-cristiani... Ricordate?

A poche ore di volo dal nostro Paese cattolico, l’aereo ci ha scaricati a Singapore, la città-stato più cosmopolita del mondo, dove i pochi cristiani convivono con buddisti, hindu, islamici e taoisti. Immaginate la mia sorpresa quando, entrando in un grande supermercato, ho avuto la sensazione di essere in una chiesa durante la funzione religiosa: il canto Adeste fideles, in latino, accompagnava la grande folla negli acquisti quotidiani... al supermercato di Singapore!

Quel tragico 26 dicembre

Da quattro giorni avevo lasciato Sumatra e mi trovavo dai saveriani, in una parrocchia alla periferia di Jakarta. Una signora, che avevo battezzato con tutta la famiglia quando lei aveva tre anni, mi aveva invitato alla festa di compleanno della sua piccola Yasika. La festa si svolgeva nella sala di un ristorante, con una ventina di amichette e le loro mamme: canti, giochi, scherzi e scambio di doni. Poi, una cenetta in famiglia con i parenti stretti. Fu lì che, per caso, venni a sapere dello tsunami. Il nonno aveva acceso il televisore; stava dando la notizia. Feci la solita sciocca domanda: “Molti morti?”. Mi rispose serio: “Sì, tanti!”. Ma a cena si parlò di tutt’altro.

Quando la sera tornai in comunità, un saveriano mi stava aspettando, ma non mi parlò del cataclisma. Solo alle 2 di notte del giorno seguente (le 4 del pomeriggio del 26 dicembre, in Italia) mi resi conto del disastro dalla televisione italiana. Infatti, per sapere cosa era successo, guardavamo i notiziari della Rai. La televisione indonesiana sembrava dare tutto per scontato. La gente, non so se per pudore o per senso di fatalismo, preferiva non parlare. A dieci giorni dal disastro, parlando con una suora, venni a sapere che stava aspettando notizie di un nipote, in servizio militare ad Aceh.

La solidarietà spegne i contrasti

Anche in Indonesia si è attivata subito la gara della solidarietà: nelle chiese, nei crocicchi, sulle piazze. Solo nella parrocchia di Surabaya, nelle Messe domenicali, oltre alle offerte per la comunità parrocchiale hanno raccolto 75 milioni di rupie, pari allo stipendio mensile di cento persone. Il problema era “come far arrivare gli aiuti”; ma sui giornali locali il dibattito era su “da chi accettare gli aiuti e da chi no!”. Il giorno dopo, un gruppo di medici e suore è partito per Aceh, per prestare soccorso e assistenza. Nel timore di essere respinte dalle autorità musulmane, le suore hanno lasciato a casa l’abito religioso...

Una persona credibile mi ha raccontato un episodio avvenuto a Meulaboh, la cittadina di Aceh distrutta dallo tsunami. I cristiani volevano passare insieme il Natale, ma la cittadinanza islamica li aveva invitati ad andare altrove, magari sulla collina fuori città. I cristiani non avevano altra scelta che accettare. Lassù hanno passato insieme il Natale e anche la notte seguente. Quando il mattino di santo Stefano i loro occhi esterrefatti videro quel disastro che sappiamo, sentirono il bisogno di ringraziare Dio per lo scampato pericolo e di pregare per le vittime innocenti. Anche i pochi sopravvissuti musulmani, che conoscevano l’accaduto del giorno prima, si sentirono in colpa, pensando che Allah non aveva gradito il loro comportamento nei riguardi dei cristiani.

Ho sentito tante riflessioni su questo tsunami; non tutte sono condivisibili. Ma questa storia dei cristiani e musulmani di Meulaboh, se fosse condivisa da tutti, sarebbe un bel segno che la religione è fatta per unire e non per mettere in guerra tra loro i credenti.

E che Dio non abbia mai bisogno dello tsunami per farcelo capire!



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