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Noi missionari parliamo poco della speranza. Forse pensiamo che il cambiamento del mondo dipenda in gran parte dal nostro impegno e dalle nostre forze. Chissà per quale strana ragione, crediamo che la speranza sia la sorellina piccola trascinata dalle due sorelle maggiori: la carità e la fede. Così lasciamo la speranza un po’ dimenticata, in disparte.

Senza speranza non si può vivere. Eppure, il problema della speranza esiste.

Per sperare bisogna essere molto felici; bisogna aver provato una grande gioia; bisogna aver fatto un’esperienza indimenticabile o, almeno, occorre avere il desiderio di farla.

Infatti, non c’è speranza senza desiderio. Il desiderio è ciò che spinge l’uomo verso l’infinito, perché il desiderio umano non ha limiti. È un’apertura all’infinito. Se questo è vero, allora è possibile sperare anche l’insperabile. Già vivere è fonte di speranza e di felicità. Diceva Aristotele: “c’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere”.

Desiderio e speranza maturano attraverso la contemplazione, quando ci mettiamo di fronte all’altro per scoprirne il senso più bello. Nel volto dell’altro, infatti, c’è un qualcosa di misterioso, una dimensione quasi infinita. Riconoscere gli altri ed essere dagli altri riconosciuti è parte fondamentale dell’esperienza della felicità e della speranza. Tutto questo è possibile quando si crea un rapporto autentico tra le persone.

Il momento culminante di un’esperienza contemplativa autentica avviene proprio in un rapporto profondo con gli altri.



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