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Il ribelle: Voleva frequentare la scuola

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Joseph Gbla è venuto a trovarmi. Ha un ultimo favore da chiedermi. E perché no? Dopo tutto, per lui io sono come un genitore. Lui dice che se è riuscito nella vita nonostante tutte le vicissitudini che ha dovuto affrontare, questo è per opera mia. C'è del vero. Ma è stato il suo carattere e la sua determinazione a farlo sopravvivere e poi diventare qualcuno.

Sabato ci sarà la cerimonia ufficiale e la parata che lo promuoverà da cadetto a membro della polizia di stato. Meglio non avrebbe potuto coronare la sua vita così travagliata: lui che quasi ci lasciava le penne nelle mani della polizia, ha voluto diventare poliziotto. Lasciamolo parlare.

Stare al mondo senza avere un'età

"Io non so la mia vera data di nascita, ma recentemente ho dovuto darmene una, per poter anch'io iniziare a vivere legalmente. Devo essere nato a metà degli anni ottanta perché nel 2000, quando la polizia mi schiaffò per sette mesi nel carcere di Pademba ero ancora minorenne. Sono nato a Matotoka, un grosso villaggio sulla via che da Makeni conduce nel Kono, la regione dei diamanti, ed ero nipote del capo tribù Bai Kafari.

Nonostante la mia alta parentela, la mia famiglia era molto povera e non potevo andare a scuola, perché i miei genitori non avevano i soldi per pagare la retta scolastica. D'altra parte anch'io, facendo legna nel bosco, partecipavo a mantenere la mia numerosa famiglia. Volevo andare a scuola: questa idea mi ossessionava, e così riuscii a farmi accettare in casa di una zia pronta ad aiutarmi, a Port Loko, molto lontano dai miei genitori. Non potevo immaginare che non li avrei più visti.

Le scuole elementari non sono molto costose, ma quando arrivai all'età delle superiori mia zia non ce la fece più a mantenermi agli studi, e mi detti a far legna per potermi pagare la retta e i libri. Ormai ce la facevo a scrivere una lettera. Proprio in questo tempo, mi colpì la catastrofe che cambiò la mia vita.

Eravamo come segugi drogati

Mia zia aveva bisogno di mercanzia per il suo commercio di sopravvivenza e mi mandò su per il fiume a procurarla. Non volevo andarci, e anche la gente sconsigliava la zia a mandarmi. Era una zona infestata dai ribelli. Ma forse, considerando la mia età - avevo undici anni -, la zia pensava che ce l'avrei fatta. Su quel barcone eravamo una cinquantina e i ribelli lo circondarono. Rimandarono a casa solo i vecchi. Io fui arruolato nella SBU (Small Boys Unit - unità piccoli ragazzi) e cominciai il mio allenamento tra i combattenti.

Per coloro che ci comandavano noi eravamo come dei segugi, sempre davanti in prima fila ad attaccare i villaggi. Feci questa vita per alcuni anni. Lunghe marce di spostamento. Attacchi ai villaggi. Uccisioni e saccheggi. Per rendere tutto più facile ci drogavano. Allora ci sentivamo così forti da non temere nessuno, capaci di affrontare qualsiasi situazione, potevamo uccidere senza sentirci in colpa.

Arrivai così al mio ultimo scontro, quando fui fatto prigioniero. Ci trovavamo con i West Side Boys, che avevano la loro maggiore concentrazione sulle colline non lontano dalla capitale. Fecero la sciocchezza di prendere prigionieri gli uomini di una pattuglia inglese in ricognizione. Gli inglesi montarono un attacco che distrusse la loro base. Tredici di noi ancora minorenni venimmo fatti prigionieri e consegnati alla polizia sierraleonese che ci mise in prigione a Pademba come persone pericolose.

La lettera dal carcere nella cucitura dei pantaloni

Passarono sette mesi prima che qualcuno potesse darci una mano per poter uscire di là. Eravamo completamente dimenticati da tutti, noi minorenni in una prigione per adulti. Chi ebbe pietà della nostra situazione fu un povero sfortunato, in prigione per questione di pochi soldi, che doveva essere portato in tribunale per poi tornare a casa. Ebbe compassione di noi: vedendo le condizioni nelle quali vivevamo, era certo che non ce l'avremmo fatta ad uscire di là.

«Conosco un padre che potrebbe aiutarvi», ci disse; « gestisce un programma per il recupero di ragazzi come voi, ma dovrei far arrivare a lui la notizia che voi siete qui a Pademba». Riuscii a convincere un secondino a darmi un foglio di carta e una biro e scrissi una lettera a quel padre. Tagliai la cucitura dei pantaloni per nasconderla e consegnarla a tempo opportuno all'amico che voleva aiutarci".

Una sfuriata che ha funzionato

Ora tocca a me continuare il racconto. Ricevetti la lettera quasi di nascosto, perché chi la recapitò non si fece riconoscere. Forte di questa notizia, mi presentai al ministro della giustizia, che già altre volte mi aveva aiutato a rettificare situazioni irregolari nella detenzione di minorenni. Immediatamente mi consegnò una lettera indirizzata all'ufficiale incaricato delle prigioni, perché mi consegnasse i tredici ragazzi. Ma la polizia vedeva la situazione con altri occhi: "Noi dipendiamo dal ministro degli interni", mi disse. "Legga bene", gli dissi; "c'è scritto «Copia al ministro degli interni».

In realtà non c'era tanta logica, ma funzionò quando dissi che se non andavo via con i ragazzi li avrei accusati al ministro della giustizia di non cooperazione e di partecipazione a un crimine: l'imprigionamento di minorenni in una prigione per adulti. La sfuriata funzionò perché mi chiese di tornare il giorno seguente.



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