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LA PAROLA
C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo; oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano tra loro: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia (Lc 2,8-16).

Se c’è un simbolo trasversale a tutte le culture e le religioni è l’accensione delle luci. Si accendono lampade e candele per onorare Dio, per rappresentare la vittoria della vita sulla morte, per ridestare il ricordo o per riaprire orizzonti di speranza lì dove tutto sembrerebbe consegnato all’oblio e alla distruzione.

Anche il cammino di attesa del Natale è segnato dall’accensione di fiammelle che diventano man mano più intense mentre la cera si va sciogliendo poco a poco. Ed è in questo contrasto, tra la luce che aumenta d’intensità e il disfarsi progressivo delle candele - sperando che non siano sostituite da fredde lampade a led - che si coglie meglio il mistero del Natale. Ce lo ricorda soprattutto Luca in questo racconto così caro e consueto che corre il rischio di non destare più alcun stupore. La gloria del Signore avvolge di luce non il palazzo di Erode, ma i pastori che dormono all’addiaccio, dei senza fissa dimora, a quei tempi più temuti che stimati, un po’ come gli zingari nell’immaginario collettivo odierno. Sono loro a ricevere il buon annuncio che ha mutato il corso del mondo, sebbene spesso non se ne colga l’evidenza: la nascita del Salvatore, del Messia. I loro occhi erano abituati a scrutare la notte, ad attendere l’alba.

L’attesa consuma, così come la fiammella consuma la cera. Non c’è luce senza un qualche tipo di morte, di rinnegamento di sé. I pastori sono chiamati a lasciare le loro greggi per avventurarsi verso Betlemme dove troveranno il segno poverissimo di un neonato. Gli angeli, il Gloria cantato nei cieli, la luce abbagliante nel cuore della notte scompaiono per lasciare il posto ad un’apparizione incarnata nel corpo di un bimbo adagiato su uno strame di paglia. Dio non si manifesta qui in forma sacrale, ma in mezzo alle cose, “in mezzo al villaggio”, come direbbe Dietrich Bonhoeffer. Pure Dio perde qualcosa di sé, si ‘restringe’, come afferma la tradizione rabbinica, per fare posto alla creatura umana, o meglio, per fare la sua tenda nella nostra carne secondo il linguaggio dell’evangelista Giovanni. È giunto ormai il sole che sorge dall’alto per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte (Lc 1,78-79). Le altre luci vengono meno o si fondono, come nella notte di Natale, nella grande fiamma del Cristo.

Il Natale è la kenosis di Dio (svuotamento) che in Gesù rinuncia alle sue prerogative divine per attraversare la nostra mortalità. Tutto nel racconto di Luca è invito ad andare oltre l’evidenza di una scena che, trasformatasi in presepi ed in infinite rappresentazioni iconografiche o commerciali che siano, non può esaurirsi in sé stessa. Dio entra nella storia come un neonato perché vuole essere riconosciuto come il Risorto. Il bagliore nel cielo di Betlemme si ricongiunge con il sole che albeggia la mattina di Pasqua. Non c’è posto per trionfalismi né per culti di personalità, oggi giustamente rifiutati. Il bambino nella mangiatoia non è un idillio, ma il Dio compagno che sperimenta la nostra faticosa ascesa all’essere e di perdita dell’essere, come vuole la compassione manifestata dal Cristo, l’Emmanuele.



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