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L’avevo incontrato sul Boulevard Tongani, all'ombra dei rari alberi piantati dalla colonia. Avevo sentito tanta pietà per questo bambino. Vestiva una uniforme militare cinque volte più grande di lui. Il sudore gli copriva il volto di bambino. Il sole batteva forte e all'ombra il termometro sfiorava i 40 gradi. Sulle sue spalle un fucile, di altra epoca, più grande della sua taglia. Sembrava esserne molto fiero.

Quanti pensieri mi sono balenati in testa in quel momento, è difficile dirlo. Non potevo pensare che la guerra potesse  arrivare a tanto e fare cose del genere. Eppure eccomi davanti alla sua realtà cruda. I bambini soldato. Quanti ce ne saranno in tutto il Congo?

Tempo fa avevo letto che nella sola Kinshasa ce n'erano 10.000, sradicati ai loro affetti, ai giochi, alla vita normale: cosa saranno domani, se oggi imparano ad uccidere? Mi avvicino e con un grande sorriso cerco di accaparrarmi la sua simpatia. Mi domanda una sigaretta. Non ne ho. Mi domanda qualche centesimo. Mi metto le mani in tasca, ma mi ritrovo con nulla.

Il nostro incontro sembra terminare là; quando all'improvviso sbuca un altro soldato, più grande di lui, che lo chiama col nome di Dunia. Mi offre l'opportunità di poter continuare e saperne di più. Il nostro parlare diventa semplice. Dunia ha dodici anni, è scappato di casa, non se la intendeva più con sua mamma. Aveva già usato il fucile, ucciso due persone, tra cui una bambina.

L'uccisione di questa bambina aveva provocato un trauma; me ne parlava singhiozzando. Ci siamo rivisti ancora diverse volte, abbiamo parlato. Gli ho dato la sigaretta che mi aveva chiesto. Mi aveva fatto tante promesse. Poi un giorno mi danno la notizia che Dunia era fuggito insieme ad altri, ed era ritornato al suo villaggio. Voglio sperare che abbia ritrovato l'affetto di sua mamma, per potersi rifare e dimenticare tutto.

 



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