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Cresciuti ai bordi di periferia

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Loredana Gares da tre anni si reca in Bangladesh con il marito Claudio Chilovi. Entrambi aiutano il saveriano bresciano p. Riccardo Tobanelli con i bambini di strada e a vivere la misericordia del Padre.

Siamo abituati a pensare a bambini e ragazzi come persone da accudire, sfamare, crescere, aiutare, ma soprattutto a cui insegnare la vita. È proprio quest’ultimo l'aspetto sul quale mi voglio fermare a riflettere. Mi trovo in compagnia dei ragazzi di strada della periferia di Dhaka, chiamati “tokai”.

NON CONTARE SOLO SUL “ME STESSO”

Questi marmocchi sopravvivono come possono tra la povertà, gli abusi, lo sfruttamento da parte di chi dovrebbe salvaguardarli. Le bambine spesso fanno le schiave domestiche presso famiglie benestanti e i maschi vivono tra le discariche della città raccattando tra i rifiuti qualcosa da rivendere per pochi soldi, il più delle volte finendo per indebitarsi e trovandosi in una situazione di schiavitù. Abbandonati dalle famiglie, troppe volte i loro rapporti con gli adulti si concludono con abusi sia fisici che sessuali. “Me stesso” è l'unica persona su cui possono contare, o meglio dovrei dire “era”. Sì perché da qualche anno qualcuno se li è presi a cuore.

Padre Riccardo Tobanelli è il saveriano che ha deciso di vivere per loro e con loro. Negli anni ha realizzato il suo progetto: toglierli dalla strada e offrire una “vita normale”, una casa, un cuscino su cui posare la testa, un bagno per lavarsi, una cucina per prepararsi il cibo, un tavolo su cui poter poggiare un libro, la possibilità di andare a scuola… Tutte cose che per loro non sono scontate.

COMPRENSIONE, COMPASSIONE E TANTO AFFETTO

Ha costituito nel tempo la comunità dei tokai chiamandola “Tokai Songho”, ora anche loro hanno una dignità, un'appartenenza. Conoscendo p. Riccardo ci siamo lasciati incuriosire dai suoi racconti e abbiamo deciso di dargli una mano come possiamo. È la terza volta che io e mio marito Claudio veniamo in Bangladesh. Li osservo da fuori e vedo in tutti loro una gran voglia di riscatto, ma ciò che veramente chiedono è amore, affetto, tenerezza. Abituati a doversela cavare da soli in ogni situazione, anche le cose più normali come mangiare o dormire diventano un fardello. Pensando a questo, è impossibile prendersela con loro se qualche volta non riescono a comportarsi da “persone civili” perché abituati a dover fare a spallate per potersi far largo nel mondo. È impossibile giudicare il loro vivere a volte un po' grossolano se solo ci immedesimiamo in ciò che hanno dovuto passare. Questo è l'anno del giubileo straordinario sulla misericordia e per trovare una definizione a questo termine mi basta guardare questi “scugnizzi”, come li chiama Riccardo. Trovo comprensione nell'affetto, negli sguardi, nei gesti.

Misericordia è tolleranza quando combinano qualche marachella, è il buon cuore di abbandonare per un po' la vita agiata per stare al loro passo, è comprendere tutte le storie che questi piccoli uomini e donne hanno alle spalle, è pietà che leggi nei loro occhioni quando ti guardano. È compassione nel cercare di esserci, dandogli stabilità, non facendoli sentire abbandonati. Talvolta si deve giustificare la freddezza caratteriale che usano come scudo per salvaguardarsi, perché non sarà semplice per loro dare fiducia al primo che passa solo perché gli fa un sorriso, ma ci provano e tentano di migliorarsi. Provano a entrare a far parte di una società che troppe volte ha chiuso loro le porte in faccia.

QUEL NODO ALLO STOMACO…

Ricordo la mia prima volta in Bangladesh. Il giorno prima di ripartire per l'Italia p. Riccardo mi porta  presso la ferrovia di Tongi a visitare i bambini che frequentano una postazione che uno dei suoi ragazzi cresciuti ha deciso di tenere aperta per offrire un punto di riferimento. Arrivati sul posto, vedo sbucare da ogni dove un sacco di bambini, scalzi e vestiti con quattro stracci. Era gennaio, faceva molto freddo e io non sapevo più cosa mettermi addosso per non sentire tutta quell'umidità che ti prende le ossa.

Nel vedere p. Riccardo gli saltano addosso felici come il giorno di Natale e lì capisco cosa voglia dire avere qualcuno che si interessi a loro. Alcuni hanno la faccia tutta macchiata di nero e appiccicoso. Chiedo spiegazioni e mi viene detto che tanti sniffano la colla, una specie di mastice, per non sentire fame e stanchezza. Mi viene un nodo allo stomaco! Il più grande di loro avrà avuto forse sette anni e l'unica cosa su cui poteva contare era un letto fatto di assi di legno in una baracca di latta lungo i bordi di una ferrovia e un pasto frugale. Ma sanno che nel momento in cui decidono liberamente di togliersi dalla strada, p. Riccardo per loro c'è ed è pronto ad aiutarli e portarli in comunità.

IL BRACCIALETTO DI PLASTICA ROSA

Arriva il momento di salutare i bambini e tornare a casa. Non ci lasciano soli e ci accompagnano per tutto il tragitto. Uno di loro mi prende la mano e ci mette dentro un piccolo braccialettino di plastica rosa. È l'unica cosa che possiede oltre a quei quattro stracci che indossa, ma comunque lo regala a me, una perfetta estranea che quel giorno ha deciso di portargli un saluto. In quel momento ho capito la generosità, l'altruismo, il desiderio di affetto, il bisogno di non attaccarsi alle cose del mondo, ma di cercare più nel profondo la tenerezza delle relazioni umane.

Mi sono sentita sporca e piena di troppe cose che non servono. Per qualche tempo pensare a lui mi ha resa malinconica e ancora oggi conservo quel dono per ricordarmi cosa conta nella vita. Quel giorno un bambino mussulmano mi ha insegnato a essere cristiana. Ringrazio p. Riccardo e tutti i tokai che ho incontrato, perché mi hanno fatto capire e sperimentare cosa sia la misericordia. 



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