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Atto 1°: Borodol, mi chiamano “Padre dei Muci”

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L'incoscienza della missione solitaria

La popolazione del Bangladesh è in stragrande maggioranza musulmana. L'islam è definito e creduto come la religione della fratellanza, perché tutte le creature sono eguali davanti ad Allah. Nonostante questo principio di fede, la stratificazione culturale di casta, sotto-casta e fuori-casta segna ancora profondamente la società bangladeshi. Persino la distribuzione logistica della popolazione rispecchia questa struttura mentale.

Nel villaggio, il fenomeno è ancora ben marcato e visibile. Così, per esempio, nella configurazione dell'area abitata, il quartiere dei muci occupa sempre la zona più malsana e a rischio, e spesso manca anche la strada di accesso. Questa situazione umana meriterebbe di essere considerata in dettaglio, ma non è questo il luogo per farlo.

Il fiume della mia vita missionaria

La scelta dei Muci ha caratterizzato fin dall'inizio la mia attività in Bangladesh ed è rimasta una costante negli anni successivi, fino al punto da venir identificato come mucider father - “il padre dei muci” . Tutto cominciò con quei 12 anni di immersione proprio nella realtà di Borodol sulla riva del Kopotokko, diventato il fiume della mia vita. Dodici anni senza elettricità, al lume della lampada a petrolio, senza telefono, come catapultato in un mondo fuori della storia. Dai miei appunti di diario, in data 30 settembre1979, leggo poche righe di assaggio: “Questo fine settembre se ne va e si porta via il mio 40mo compleanno: coscienza di debolezza, in questo posto di guardia, al limite del coraggio e dell'umana possibilità. Può Dio colmare questa solitudine? Mio Dio tu sei tutto per me e il mio timore è soltanto per la mia debolezza, e non certo per te”.

Nella parabola della missione, penso all'attività tra i fuori-casta di Borodol come alla preistoria della mia missione . Dopo un anno dal mio arrivo in Bangladesh, terminato il corso di lingua, mi fu chiesto di andare a Borodol a riaprire quella missione che era rimasta chiusa per otto anni: un'avventura fallimentare. Devo ammettere che ci fu un po' di incoscienza anche da parte mia: accettavo pur sapendo che sarei rimasto a lungo da solo, senza la possibilità di essere introdotto nell'ambiente da un veterano , e quindi senza la possibilità di un confronto. Ma tant'è, la missione a volte si nutre anche di un pizzico di incoscienza.

L'illusione di un sogno avverato

Vi arrivai la prima volta su una barca a remi, sulla quale avevo caricato tutte le mie masserizie, partendo dalla più vicina missione, quella di Satkhira, con una traversata durata 11 ore. A mie spese ho imparato i trucchi dei fiumi a sud del Bengala: si parte con la corrente favorevole e poi, per il fenomeno dell'alta e bassa marea, ti trovi con la corrente che ti sospinge indietro.

Le prime impressioni sono quelle che rimangono dentro e riemergono appena si apre la stura dei ricordi. Arrivavo a Borodol con lo slancio missionario di chi ha atteso a lungo il momento per realizzare il sogno di annunciare il regno di Dio e il vangelo. Mi trovavo finalmente sul campo e tutti sarebbero stati lì pronti ad ascoltarmi. Grande illusione e primo impatto con una realtà sconcertante, che d'allora in avanti avrebbe costituito la vera sfida alla mia pretesa missionaria! Lo spettacolo che mi si presentava era quello di un ammasso di capanne ( il quartiere dei cristiani ), addossate le une alle altre, più simili a tane di animali che ad abitazioni. Dentro e fuori le capanne, la gente - i miei muci - che pur diventati cristiani, non erano comunque riusciti ad affiorare a uno stadio di vita più umano. Anche se le situazioni di miseria si rivelano identiche in tutte le latitudini, quella che si presentava a Borodol a me appariva unica e mi interpellava fortemente.

Quale missione? Quella della Parola o quella del Pane? Non c'era tempo per molte discussioni e le scelte s'imponevano con urgenza. Mi viene in mente il suggestivo monito di Bonhoeffer, il teologo tedesco assassinato dai nazisti nel 1945: “Noi cristiani non potremo mai pronunciare le parole ultime della fede, se prima non avremo pronunciate le parole penultime della giustizia, del progresso e della civiltà”. Un messaggio antico quanto il vangelo.

Un villaggio nuovo, rubato al fiume

Non mi ci volle molto per individuare alcune direttrici di marcia, sulle quali mi sarei mosso. Occorreva anzitutto creare uno spazio vitale e permettere alla gente di diradare le loro capanne e costruirle in ambiente più sano. Per la realizzazione di questo sogno ci venne incontro il fiume, che si rivelò una vera benedizione. Ogni anno infatti il fiume si trascina dietro una grande quantità di detriti alluvionali, mentre la corrente corrode da una parte e accumula dall'altra. Noi ci trovavamo sulla sponda favorevole e questo ci permise di strappare al fiume una lunga fetta di terra.

Con formale richiesta al governo, attraverso una procedura lunga e snervante, ne ottenemmo la proprietà. Lungo la sponda del fiume costruimmo un argine lungo 500 metri, per proteggere il terreno. Lo spazio ricavato è stato riempito e rialzato con terreno prelevato dal letto del fiume, lasciando liberi alcuni tratti, trasformati in piccoli laghi, i cosiddetti pukur , utili per la pesca e per dare alla gente la possibilità di fare il bagno in acque pulite (nel fiume non ci si bagna, per la presenza di squali).

Chi va adesso a Borodol non può rendersi conto delle trasformazioni avvenute. La scuola e il centro del cucito, per esempio, sorgono là dove una volta c'era il letto del fiume. Ma è meglio che mi fermi qui, per il momento, perché questo è solo l'inizio di ...un lungo romanzo.



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