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Tolto l’embargo al Burundi: ma è giorno di festa o di silenzio?

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Riceviamo dal Burundi questa voce “dissidente”.  È necessario ascoltarla per non pensare, stornati da tante campane a festa, che la situazione sia felicemente risolta. Il grido del silenzio a volte è il più veritiero, ma  nessuno lo vuole sentire.

I burundesi che vivono nei “campi”, le vittime dei processi sommari e i civili alla mercé dei militari e dei “ribelli”, non sembrano richiamare a sufficienza l’attenzione sia dei regime al potere che dell’opinione internazionale.

Dal 23 gennaio scorso il Burundi è libero dall’embargo.  Ricordiamo: 

31 luglio 1996: i presidenti dei paesi dell’Africa centrale impongono l’embargo contro il Burundi, esigendo un ritorno all’ordine costituzionale e alle negoziazioni con i “ribelli”. 

16 aprile 1997: l’embargo è tolto per ciò che concerne l’alimentazione, l’agricoltura, la sanità e le costruzioni.

23 gennaio 1999: sono sospese le sanzioni economiche riguardanti l’embargo sul carburante, sui trasporti e sulle esportazioni.  Il Consiglio di sicurezza dell’Onu invita a togliere o a sospendere le sanzioni, considerate inefficaci e con effetto devastante sulla popolazione.

Finalmente il regime dittatoriale del Burundi, rappresentato dal maggiore Buyoya, è riuscito a convincere l’opinione mondiale del grande disastro dell’embargo, mentre l’opinione mondiale non è riuscita a convincere lui e il suo “governo” a mantenere le promesse fatte per rendere il paese più civile.

In generale si può dire che l’embargo viene utilizzato come strumento politico per favorire i processi di pace. In realtà, già molto discusso ed ambiguo nella sua categoria d’origine, si può trasformare, come nel caso del Burundi, in uno strumento di consenso della dittatura. Infatti i gravi problemi nazionali venivano da tempo imputati alle ristrettezze dell’embargo, anziché alla politica e al governo burundese. La lotta intensa, attuata in questi anni dal regime Buyoya per la sospensione dell’embargo, ha rinforzato le simpatie per la sensibilità mostrata nei confronti dei bisogni della popolazione, ad esclusione però di quella parte ancora rinchiusa nei “campi”1.

Gli altri burundesi, ovvero quelli che vivono nei campi, le vittime dei processi sommari e i civili alla mercé dei militari e dei “ribelli”, non sembrano richiamare a sufficienza l’attenzione sia del regime al potere che dell’opinione internazionale.

Così questa sospensione li ha tolti anche dalla categoria di “vittime” di una guerra in atto, considerata, per motivi che sarebbe bene approfondire e capire, meno significativa dei disastri causati dall’embargo e degli urgenti bisogni economici del paese.

Sabato 23 gennaio è stato, allora, un giorno di festa per il Burundi?  Sono tanti che pensano e sperano che la sospensione dell’embargo sia la fine di un’ulteriore disgrazia del paese.  Qualcuno addirittura è convinto che sia l’inizio di una stabilizzazione.  Tuttavia le riflessioni su ciò che sta accadendo più in generale sono poche, quasi nulle.

Il desiderio,  a qualunque costo, di porre fine ai danni economici subìti, sembra aver tolto ai più la capacità di riflessione e di pensiero, in aggiunta alla consueta impossibilità di potersi liberamente esprimere.  Questo silenzio si assomma a quello di coloro che si occupano di problemi umanitari e che assistono muti alle continue usurpazioni, nonché a quelli che hanno scelto di vivere nonostante tutto e che sono diventati strumenti della dittatura in Burundi.  Una tale collaborazione passiva, magari inconscia, garantisce al governo burundese il supporto nazionale ed internazionale.

Bisogna però ricordare e tenere ben presente che buona parte del consenso ottenuto in questo paese dipende anche da due eventi importanti:

- la maggioranza del popolo burundese è stata sottoposta a violenze fisiche, psicologiche e morali continuate;

- tanti degni burundesi sono stati convinti, dalla forzata convivenza con gli aggressori, che il ripristino di una dittatura e dei suoi strumenti di repressione sia, ancora una volta, l’unica soluzione per il paese.

Osservando tutto ciò, l’impressione è che molti burundesi, imbrogliati da tutti e da tutto, ora hanno imparato, per sopravvivere, ad imbrogliare anche se stessi!  Molti non vogliono più pensare.  Dicono: non ne è più il tempo!

A questo punto è festa grande, quindi, per chi ha bisogno di consenso tout court, poiché ora è ancora più facile pensare ai “ribelli” – da altri chiamati “resistenti” – come persone da eliminare e non come una parte di popolazione con la quale ci si deve pur confrontare.

Così la sospensione dell’embargo è piena di ambiguità: è per tanti un giorno di festa, di liberazione dal mostro creato dai perdenti; è un giorno di speranza per il domani, in particolare per coloro che riusciranno a spendere meno e guadagnare di più.

Per altri, per la storia di un popolo e del suo cammino verso la consapevolezza e la dignità, l’ambiguità dei sentimenti non conduce a far festa, neanche di fronte alla promessa di un presente meno faticoso, ma a rimanere, un’altra volta, in silenzio.


1  I campi sono luoghi dove i militari riuniscono i burundesi di una etnia con lo scopo ufficiale di poterli difendere dall’altra. I campi quindi non sono tutti uguali:

- ci sono quelli dei  déplachés tutsi, chiamati così perché persone spontaneamente si sono riunite e “spostate” dalle loro case, dopo i massacri del 1993, per rifugiarsi in luoghi vicini a caserme militari ed essere così protetti dalla popolazione hutu e dai ribelli;

- gli altri campi, creati dal regime Buyoya, sono occupati dai regroupés hutu, “riuniti” dai militari tutsi in zone protette dall’esercito.  Questi ultimi risulta difficile capire da chi siano protetti.  Dai militari, praticamente tutti di etnia tutsi? Forse dalla popolazione tutsi?  La versione ufficiale è che li selezionano in campi per poterli differenziare dai ribelli hutu e difenderli dagli stessi.  In realtà, basta leggere i rapporti di Amnesty International per comprendere quante somiglianze ci sono fra questi “campi” e i “campi di concentramento”.



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