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MISSIONARI PER VOCAZIONE / LA TESTIMONIANZA DI PAOLO

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La centralità dell’episodio della conversione di Paolo nel libro degli Atti è confermata soprattutto dal fatto che esso verrà narrato altre due volte (At 22,3-21; 26,4-23), anche se in quei casi sarà lo stesso Paolo a riferirne il contenuto, mettendone in rilievo la dimensione vocazionale. Poiché al cap. 9 il lettore viene informato di tali fatti per la prima volta, il racconto è ben costruito e ricco di particolari. I racconti di At 22 e 26 sono invece più brevi ed è evidente uno spostamento di accenti: in At 22 l’esperienza di Damasco è descritta sia nei termini di una conversione, sia in quelli di una vocazione, mentre in At 26 prevale la tematica vocazionale in vista della missione. In tal modo l’evangelista Luca conduce il lettore ad una comprensione sempre più profonda dell’esperienza di Damasco, mettendo progressivamente in luce le motivazioni più intime che hanno animato la missione evangelizzatrice di Paolo.

NON C’È VOCAZIONE SENZA CONVERSIONE

Tali considerazioni sono fondamentali poiché, leggendo in sinossi i tre racconti, emerge in maniera evidente che l’apertura universale dell’annuncio evangelico non è conseguenza di una strategia puramente umana, ma scaturisce anzitutto dal cuore di Dio. Allo stesso modo si comprende che Paolo, divenuto “strumento eletto” (vas electionis, cfr. At 9,15) a servizio di Dio, non è divenuto evangelizzatore per desiderio personale, ma per vocazione divina. Certo, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, nel racconto di At 9 l’accento cade sul tema della conversione: da accanito persecutore (“Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore…”, At 9,1), diventa lo “strumento” privilegiato che il Signore ha scelto per la diffusione del Vangelo, come afferma il Risorto nella visione di Anania: “… egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15-16). Insomma, da questi versetti emerge una verità che, a ben vedere, vale per tutti: non esiste autentica vocazione che non sia accompagnata da un degno percorso di conversione.

LA MISSIONE COME TESTIMONIANZA 

Ci pare utile suggerire alcune riflessioni proprio a partire dai vv. 15-16, poiché in essi risuona una parola che getta luce sul significato dell’intera missione dell’apostolo delle genti. Paolo è scelto anzitutto per “portare il nome di Gesù”, espressione singolare che significa non tanto “annunciare” o “predicare”, ma “confessare”, “testimoniare”. Come nota Artur Weiser, Luca utilizza una terminologia che appartiene anzitutto al vocabolario del martirio, prima ancora che a quello della missione. Ciò non deve stupire, perché proseguendo nella lettura del libro, il lettore si renderà sempre più conto che la testimonianza (martirio) della vita costituisce, nelle sue diverse forme, il fondamento della missione universale. Non solo, ma il Risorto non nasconde che vivere il martirio nella missione comporta inevitabilmente una buona dose di sofferenza. Non dobbiamo pensare, tuttavia, che la sofferenza in sé costituisca qualcosa di positivo: il cristiano – e ancor più il missionario – non ama la sofferenza, anzi, lotta per contrastarla con tutte le proprie forze. Qui la sofferenza – inevitabile per chi accetta di intraprendere tale lotta in nome del Vangelo – è sigillo e conferma dell’autenticità della vocazione e della missione. Il Gesù di Luca lo ribadisce più volte nel vangelo e negli Atti: per arrivare alla gloria della risurrezione si deve passare attraverso il dramma della croce, con tutto il carico di sofferenza che essa comporta e da cui, paradossalmente, proprio essa ha il potere di liberare.

LA VICINANZA DEL RISORTO

A ben vedere, se da un lato la previsione delle sofferenze dell’apostolo incute un certo timore, dall’altro suscita paradossalmente una grande consolazione, poiché significa che il disegno divino rivelato dal Risorto è superiore anche ai grandi drammi che scuotono la storia e che, presi per se stessi, sono causa di inquietudine e di smarrimento. Sarà perciò motivo di grande conforto, nel prosieguo del racconto, notare come il Risorto in persona saprà farsi vicino all’apostolo nei momenti più duri, per infondere nel suo cuore coraggio e speranza (cfr. At 23,11).

NELLE PERSECUZIONI

C’è poi un particolare, nel racconto di At 9, che ci pare importante, soprattutto dal punto di vista ecclesiologico. Quando la luce avvolge Paolo facendolo cadere a terra, l’apostolo ode la voce del Risorto: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Anche se non emerge in maniera esplicita un riferimento alla dottrina paolina della Chiesa corpo mistico di Cristo, l’idea è affine e va interpretata nella prospettiva suggerita dagli insegnamenti che Gesù aveva consegnato ai primi discepoli missionari: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10,16). Dal tenore delle parole udite da Paolo risulta dunque che Gesù è vivo e si identifica con i suoi discepoli, soprattutto con quelli perseguitati a causa del Vangelo. Tale messaggio è fonte di grande consolazione, soprattutto per quei missionari e per quei cristiani che, ancora oggi, vivono sulla propria pelle il dramma della persecuzione a causa della fede in Gesù. Il Risorto non è indifferente ai drammi, alle sofferenze e al martirio di coloro che hanno il coraggio di sacrificare la vita per amore suo e del Vangelo. In una maniera certamente misteriosa eppure reale, il Signore Gesù è vicino ai suoi discepoli, soprattutto nei momenti più duri e non manca, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, di infondere nei loro cuori coraggio e speranza.

IL VANGELO AL CENTRO

Un’ultima sottolineatura. Dal racconto di At 9 emerge che la condizione essenziale affinché la conversione possa dirsi autentica e la missione fruttuosa è che l’uomo si lasci “destrutturare” e “ricostruire” dalla grazia. Prima di rialzarsi, Paolo è dovuto cadere a terra, e solo in un secondo momento si è sentito dire: “Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (At 9,6). Come nota opportunamente Daniel Marguerat, «Saulo vede sfuggirgli di mano il futuro a causa dell’esigenza di mettersi a disposizione di un altro. Inoltre, il passivo “ti sarà detto” lascia supporre qualsiasi cosa sull’identità di colui che comunicherà “ciò che devi fare”; Saulo non avrà alcuna presa su quella parola. Il controllo della storia ha cambiato campo; c’è qui l’essenza stessa del fenomeno di conversione così come Luca vuole descriverlo. L’uomo attivo, che voleva incatenare e deportare, si ritrova dipendente, passivo e cieco… Il risultato della folgorazione di Saulo è una totale espropriazione. Privato della conoscenza (v. 6b), Saulo è ormai privato della vista… Fra la distruzione del suo progetto di persecuzione e la ricomposizione della sua identità, Saulo è come un uomo morto, abbandonato a ciò che verrà. La sua identità è come sospesa prima di essere ricomposta». Si tratta certamente di una destrutturazione e di una privazione dolorose, eppure necessarie, perché solo in questo modo l’apostolo comprenderà che, al centro della missione, più che le proprie idee e i propri progetti, deve esserci il Vangelo. È la centralità del Vangelo, con il suo carico di grazia e di sofferenza, a garantire il successo della missione. Questo i cristiani – uomini di Chiesa in primis – non devono mai dimenticarlo, tentati come sono di cercare sicurezza e successo nel denaro e nel potere, senza rendersi conto che, anche con le migliori intenzioni, rischiano di asservirsi ad una logica diabolica che non possiede nulla di evangelico. 



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