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Maximos IV Saigh: Il posto dell'Assente

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Quando s’inaugura il Vaticano II, Maximos IV Saigh è un venerabile vegliardo che già dal ’47 è Patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme. Nato col nome di Amine, il fedele, ad Aleppo in Siria (1878), da famiglia molto religiosa, nel 1893 è ammesso al seminario di Sant’Anna a Gerusalemme; conclusi gli studi, diventa professore di lettere arabe. Nel 1904 entra fra i missionari di San Paolo, e lo stesso anno è ordinato prete come Youssuf. Nel ’12 è superiore generale della congregazione, carica che manterrà fino al ’19, anno dell’elezione alla sede di Tiro: occasione in cui assume il nome di Maximos. Nel ’33 da Tiro è trasferito a Beirut, dove resta fino al patriarcato.

Ha 84 anni, Maximos IV Saigh, quando entra in Concilio. Per molti aspetti, tuttavia, sarà uno dei padri più innovativi, su (quasi) tutti i punti dibattuti sosterrà le tesi più aperte, e soprattutto costringerà i suoi colleghi, in massima parte latini, a ricordare che nella cattolicità esiste anche la tradizione orientale, di solito sottovalutata da Roma e dai vescovi occidentali.

LE VICENDE DELLA CHIESA MELCHITA

Per cogliere il ruolo svolto al Vaticano II dal patriarca melchita è necessario soffermarsi brevemente sulle vicende storiche della sua Chiesa. Melchiti è il nome attribuito nel V secolo ai cristiani dei patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, che accettarono la definizione del Concilio di Calcedonia (451) sulla natura umana e divina di Cristo in conformità alle prescrizioni papali e dell’imperatore bizantino. Esso (dall’ebraico melek, re) identificava di fatto i seguaci dell’imperatore, e fu coniato spregiativamente dai teorici del monofisismo, convinti invece del carattere unicamente divino della natura di Cristo.

I melchiti, detti anche greco-cattolici, aderirono allo scisma che diede origine alla Chiesa ortodossa (1054), ma nei secoli seguenti alcuni gruppi tornarono alla comunione con Roma entrando a far parte delle Chiese cattoliche di rito orientale: il patriarcato di Damasco fu riconosciuto nel 1724. Pur mantenendo rito e lingua liturgica differenti da quelli romani, formano con essi un’unità ecclesiale: riconoscono il primato del papa e i presbiteri, non tenuti al celibato, celebrano la liturgia in arabo. Il suo centro è appunto a Damasco, ma ha fedeli sparsi in tutti i paesi del Medio Oriente e importanti comunità nella diaspora, soprattutto nelle due Americhe.

UNA GRANDE CONSAPEVOLEZZA

I vescovi melchiti sono coscienti di rappresentare al Concilio non solo le loro piccole comunità, ma anche, in qualche modo, la grande tradizione ortodossa bizantina.

Tra le Chiese orientali presenti, in effetti, nessuna più della Chiesa melchita si mostrerà consapevole del bivio decisivo di fronte al quale i padri si trovano: conservare un orgoglioso arroccamento identitario o optare per un dialogo, difficile ma sempre più necessario, con le altre Chiese. Il che spiega la caparbietà con cui essi, capitanati da Maximos, si battono perché il Concilio riconosca i diritti e le prerogative dei patriarchi orientali, l’autonomia giuridica delle loro Chiese e la rilevanza che sono soliti dare alle procedure cerimoniali. Un impegno riconosciuto pubblicamente dallo stesso patriarca ecumenico Athenagoras I, quando nel giugno del 1964 – primo leader ortodosso a compiere tale gesto – incontra proprio Maximos al Fanar (storica sede del patriarcato, a Istanbul), salutandolo come “il campione dell’apertura dell’Occidente all’Oriente”.

FERMA DIFESA DELL’ORIENTE

Convinto della vocazione ecumenica della Chiesa che presiede, Maximos si fa, giorno dopo giorno, testimone convinto di un pensiero teologico originale derivato dall’antica tradizione dei padri greci e chiamato a equilibrare il pensiero scolastico cui si ispira, troppo esclusivamente, la Chiesa latina. Per questo interverrà in aula a più riprese, non solo per difendere i diritti delle Chiese orientali ma su vari temi, dalla rivelazione alla collegialità, dall’ateismo al matrimonio alla povertà della Chiesa.

Già prima dell’inizio dei lavori mostra la sua caparbietà, quando compie un’attenta visita alla basilica vaticana, constatando che il posto dei patriarchi orientali segue quello dei cardinali nell’ordine delle precedenze, e solo un panno verde rende la loro collocazione distinta dagli altri padri. Agli occhi della curia si tratta di una sottigliezza tipicamente orientale e la pretesa di Maximos – che rivendica il posto dei patriarchi subito dopo quello del vescovo di Roma – è ridotta alla difesa di privilegi formalistici privi di sostanza. Eppure non è così. Dietro il proprio posizionamento in San Pietro egli scorge lo spinoso tema ecclesiologico del l’oriente cristiano non cattolico, per il quale Roma non può prevedere un puro assorbimento, giungendo a disertare la cerimonia inaugurale, in assenza del cambiamento auspicato: “Noi abbiamo molto da lottare per avere un posto nella Chiesa cattolica d’oggi”.

Qualche giorno dopo Giovanni XXIII riceve la delegazione melchita per raffreddarne gli animi, ammettendo: “Non pensate che il papa possa fare tutto al volo. Lavoriamo lentamente, ma con fiducia”.

Maximos sarà spesso in prima linea. Accade, ad esempio, nella discussione sull’ecumenismo, allorché dichiara: “Quando si parla dell’Oriente non bisogna pensare solo a coloro che umilmente lo rappresentano in seno al cattolicesimo romano. Occorre preservare anche il posto dell’Assente. Non bisogna limitare il circuito del cattolicesimo a una latinità dinamica e conquistatrice”. I melchiti si sentono ponte fra due mondi e percepiscono, con una strategia di squadra che colpirà gli osservatori, che il Concilio può essere lo spazio opportuno per fare un decisivo passo in avanti.

Obiettivo teologico: mostrare che quella orientale è una Chiesa fonte, originaria come la latina, anzi, nata prima di quest’ultima e sua sorella, più che figlia. Un obiettivo che non sarà raggiunto pienamente; per realpolitik, probabilmente.

LA PROVA DEL CARDINALATO

Il 25 febbraio 1965, dopo molte esitazioni legate alla sua concezione ecclesiologica, Maximos accetta il cardinalato offertogli da Paolo VI: “Fu la più grande prova della mia vita”, confessa. Il 26 ottobre del ’67, reso cieco dalla malattia, è il grande assente allo scambio fraterno fra il papa e Athenagoras a Roma, i cui i discorsi, impegni presi e la preghiera insieme diventano emblema di una nuova epoca.

Muore qualche giorno dopo, e la sua salma è esposta all’omaggio del suo popolo che tanto l’ama e sfila piangendolo come la figura chiave che ha fatto crescere una nuova coscienza nelle Chiese arabe.


LITURGIA, POVERI, DIALOGO INTERRELIGIOSO

Maximos utilizzerà il dibattito sulla liturgia per sostenere con vigore – in francese! - l’introduzione delle lingue nazionali al posto del latino, perché “una Chiesa viva non sa che farsene di una lingua morta”. Chiedendo alla fine traduzioni simultanee, dato che chi viene dai paesi orientali non è obbligato a conoscere il latino, e toccando così una questione sensibile: diversi vescovi per i quali la lingua di Cicerone non è un mezzo di comunicazione abituale non comprendono quanto si dice in Concilio!

Parlando dei poveri riconosce che la Chiesa, lungo i secoli, ha fatto tanto per loro: “Ma li abbiamo lasciati sempre poveri”.

Quando poi Paolo VI impedisce di discutere del celibato nella Chiesa latina (l’orientale ammette da sempre il clero uxorato), gli scrive invitandolo a istituire una commissione “per studiare questo problema con coraggio e serenità. Sua Santità sa bene che le verità represse diventano avvelenate”.

Nota è l’opposizione di Saigh a un documento conciliare che tratti unicamente il tema del rapporto fra la Chiesa e gli ebrei, come vorrebbe il card. Bea. Rifiuto che porterà all’inserzione nella Nostra aetate di una riflessione sui musulmani (NA 3), verso cui essa ha pure una parentela spirituale per la comune fede monoteistica nel Dio di Abramo. È proprio lui a suggerire che il ventilato De Judaeis, “nonostante le precauzioni adottate, sembra inevitabile che venga male interpretato dai paesi arabi; perciò conviene togliere da esso il capitolo riguardante il popolo ebreo, o almeno aggiungerci altri capitoli che trattino dell’islamismo, dell’induismo e di altre religioni che contano milioni di seguaci”.

Si noti: è l’unico caso in cui il drappello dei melchiti si distanzia dagli orientamenti dell’ala rinnovatrice, prevalendo qui ragioni di solidarietà araba e preoccupazioni di tutela delle minoranze cristiane disperse nella umma musulmana.



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