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Johannes Willebrands, Passione per l'Unità

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Non è facile, in un tempo di smemoratezza in ogni ambito del vivere, rendere adeguatamente la straordinaria figura del card. Johannes Willebrands (1909-2006), soprattutto nel campo impervio del dialogo fra la Chiesa cattolica e gli altri: le diverse Chiese cristiane e i fratelli maggiori ebrei (come li definì Giovanni Paolo II in visita alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986). Non è facile, nello specifico, perché calarsi nell’atmosfera pionieristica di pochi decenni or sono può dare l’impressione, ai giovani di oggi, di stare parlando di eventi, situazioni e personalità distanti anni luce dalle problematiche attuali. Willebrands, del resto, va considerato l’ultimo anello di congiunzione con la generazione di quelle/i che hanno percepito con forza l’urgenza dell’unità delle Chiese e la divisione del mondo cristiano come scandalo insopportabile in vista di un’evangelizzazione attendibile, oltre che una delle principali cause delle lacerazioni planetarie.

COSTANTEMENTE IN PRIMA LINEA

“L’amore che Cristo ha chiesto a Pietro – così Willebrands riassumeva nel 1989 alla Radio vaticana il senso del suo operare – non è circoscritto ad un gruppo, nemmeno alla Chiesa cattolica: tutti sono sue pecorelle. E perciò l’amore è rivolto a tutti i cristiani, e quest’amore chiede prima di tutto l’unità, perché è una grande sofferenza quando una famiglia è divisa.

In questo spirito io ho inteso il mio nuovo compito e l’ho svolto con tutto il cuore e con tutte le forze, spirituali e materiali, che Dio mi ha dato”.

Il suo curriculum, in un paese come l’Olanda, noto per l’alto senso della libertà religiosa e di un annuncio calato nel contesto delle moderne dinamiche culturali (si pensi all’esperienza, controversa, ma comunque significativa, del Catechismo olandese uscito nel 1966), è, fino ai primi anni Cinquanta, piuttosto lineare. Ordinato presbitero ventiquattrenne, studi filosofici all’Angelicum di Roma, cappellano della Begijnhof ad Amsterdam dal 1937 al 1940, è nominato docente di filosofia nel seminario di Warmond di cui, nel 1945, diverrà rettore.

I PRIMI IMPEGNI ECUMENICI

Qualche anno dopo la fine della guerra, la sua passione per l’unità trova una prima rappresentazione pubblica rilevante: è di allora, infatti, l’organizzazione in prima persona di una Conferenza cattolica europea per le questioni ecumeniche, di cui è subito segretario. Dietro all’originale progetto si cela un’ambizione evidente: abbattere i muri di secolare inimicizia e farsi organo di contatto tra i pionieri dell’ecumenismo in casa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec).

Nel 1958 l’episcopato olandese lo designa come delegato per le attività ecumeniche, e due anni dopo è lo stesso papa Giovanni XXIII a riconoscergli uno speciale carisma al riguardo, chiamandolo a Roma come segretario dell’appena costituito Segretariato per l’unità dei cristiani, che durante i lavori del Vaticano II, sotto la guida illuminata del card. Agostino Bea, si sarebbe occupato di predisporre i documenti sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio), sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) e sui rapporti con le religioni non cristiane (Nostra aetate). Una rapida ascesa, quella di quell’organismo, nato appunto nel 1960 e dotato ai suoi esordi di uno statuto precario, che si trovò giocoforza a battersi con coraggio nella Curia romana per ritagliarsi un suo spazio.

GRANDE TESSITORE DELL’ECUMENISMO

A Willebrands spettano, di regola, le missioni più delicate: tocca a lui, ad esempio, il compito di leggere la memorabile dichiarazione solenne che, a Istanbul il 7 dicembre del 1965, cancella 911 anni di scomuniche reciproche fra il papato e il patriarcato ecumenico ortodosso. Tessitore equilibrato e capace, non è però un semplice collezionista di amicizie calibrate, né un puro negoziatore teologico, ma un credente sincero che ha deciso di assumere come caso serio il comandamento di Gesù ut unum sint.

Nel 1969 sarà Paolo VI a nominarlo presidente del Segretariato, dove prende il posto di Bea, e poi a crearlo cardinale. Lo stesso Montini istituirà nel 1974 la speciale Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, per favorire le relazioni con gli ebrei, che Willebrands pure presiederà fino al 1989. Diverrà anche arcivescovo di Utrecht e primate d’Olanda, nel pieno della crisi di quella Chiesa, pur continuando per un certo periodo a conservare la presidenza del Segretariato. Con l’avanzare dell’età, la sua audacia tende ad aumentare.

In occasione del centenario della Confessione augustana del 1980 e della nascita di Martin Lutero nel 1983, il porporato rilascia coraggiose dichiarazioni sulla testi monianza di fede del riformatore tedesco, che irriteranno teologi autorevoli quanto preoccupati di posizioni giudicate troppo cedevoli. Fino a condurre – e qui la cronaca sconfina nella storia, purtroppo senza l’atteso happy end – la Chiesa cattolica a pochi passi dall’unione con quella anglicana, sempre nell’83, e a rappresentare Giovanni Paolo II alle celebrazioni del millenario del battesimo della Russia, nel 1988: una cornice che favorirà la redazione da parte del papa polacco dell’ Ut unum sint, enciclica sull’ecumenismo uscita nel 1995 in cui si giunge ad auspicare la riforma del papato e del primato petrino in chiave di servizio all’unità.

È arduo immaginare la ricchezza dei temi ivi affrontati, senza collegarla con l’impegno quarantennale di Willebrands: dall’auspicio di una purificazione della memoria storica che condurrebbe a un’attenta valorizzazione del primo millennio cristiano alla ricerca di superamento delle fratture seguenti, fino al raggiungimento di un’unità visibile, necessaria e sufficienteintesa come dovere verso la volontà del Cristo e grazia di verità. È inevitabile, infine, nel fare memoria di una personalità così cruciale, tornare una volta di più sull’interrogativo sullo stato di salute del dialogo ecumenico.

Inevitabile ma non inutile, tanto più che – l’abbiamo registrato seguendo passo dopo passo la sua biografia – all’ecumenismo, nonostante difficoltà, ritardi e incomprensioni vicendevoli, appare impossibile rinunciare. Anzi, sono proprio le ferite ancora aperte a farci toccare con mano la necessità di un investimento ulteriore in merito; è il dolore suscitato da una comunione a tutt’oggi assai imperfetta a stimolare, non più solo gli specialisti, ma tutta la Grande Chiesa a sentire l’imperativo di un’unità pur nelle diversità come ipotesi plausibile.

Sì, ricordare un testimone così appassionato e coraggioso come Willebrands può aiutare quanti operano nel cammino del dialogo a tener duro in una stagione densa di chiaroscuri, segnata più dal disincanto che dalle speranze, più dalle cautele che dai vasti orizzonti.



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