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GUERRA: OPINIONI DIFFERENTI - CONTINUATE COSÌ... - A Mons. RAVASI

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Il dibattito continua… Ne sono prova le lettere dei lettori ricevute in questi mesi: non poche sono sui problemi emersi al convegno. Continuiamo a cercare, insieme.
I temi della pace, dei poveri e della povertà della chiesa sono decisivi per la missione. Il convegno e i lettori confermano la scelta di Missione Oggi di continuare a parlarne, per interrogarci.

SULLA GUERRA I CRISTIANI HANNO OPINIONI DIFFERENTI

Carissimo direttore, voglio ringraziare la redazione di Missione Oggi perché mi sta permettendo di dialogare con voi e con tutti coloro che non si danno pace nella ricerca di sentieri di pace.

Nel richiamare gli impegni forti della missione tu ritieni che occorre “rompere la spirale dell’accaparramento dei beni” mettendo in atto la prassi della condivisione, e “rompere la spirale della violenza” con l’amore ai nemici, con il perdono. La tua motivazione è semplice: il Vangelo è chiaro. Ma lo è per tutti i cristiani? Mi pare di no: basta leggere le lettere pubblicate dalle riviste missionarie, da Avvenire o da altri giornali, per capire quanto differenti sono le opinioni tra i cristiani (senza voler giudicare nessuno).

Credo, allora, che la nostra prima preoccupazione debba essere quella di risalire alle fonti (le testimonianze evangeliche su Gesù) per capire quale valore Gesù dava alla vita di ogni uomo o donna e come Gesù intendeva promuoverla o difenderla.

Sappiamo che alcuni testi sono influenzati dalle difficoltà di convivenza pacifica delle prime comunità cristiane con le comunità delle sinagoghe: anche Gesù li ha vissuti, ma come li ha superati? Lanciando improperi e maledizioni? Come Gesù ha trattato l’adultera? (Era uno scandalo. Molti volevano ucciderla). Come è possibile poi leggere in Marco 9,42: “Chi scandalizza uno di questi piccoli, che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare? Non si potrebbe con questo versetto giustificare la pena di morte?

Gesù ha usato la violenza contro i mercanti nel tempio? Cosa intendeva dire nel Getsemani, che occorreva vendere la tunica per acquistare una spada? Bisogna essere liberi di difendersi anche con le armi? La sua decisione di non combattere i Romani è stata una scelta strategica? (troppo deboli per vincere l’impero?). Come ha difeso la sua vita e quella degli altri? Come si può impedire che il male venga commesso da qualcuno?

Forse qualcuno potrebbe approfondire questa ricerca biblica, presentando anche le opinioni differenti degli studiosi. Si potrebbe anche promuovere una ricerca ecumenica, dal momento che abbiamo bisogno di “capirci” sia con le chiese americane sia con l’ortodossia. Cosa pensano i teologi che hanno a cuore la difesa dei diritti dei più poveri in America latina, Africa, Asia? Dobbiamo anche tener presente che sia il concilio che altri documenti magisteriali non escludono l’uso della forza per raggiungere giustizia e pace. A questo punto ogni soldato può ritenersi il più coraggioso ed il più efficace “operatore di pace”: è proprio così?

Massimo Toschi e qualche altro (Rinaldo Fabris, Giovanni Mazzullo, Valentino Salvoldi…) ci invitano ad osare la pace nella profezia di Gesù: forse dobbiamo accettare di impegnarci anche nelle contraddizioni. In amicizia.

FILIPPO GERVASI, Cursi (Le).


CONTINUATE COSÌ, E SPERO CHE VE LO DICANO IN TANTI

Sconcertata dalle lettere di dissenso che avete pubblicato sul numero di aprile, mi decido a scrivere. Capisco la vostra preoccupazione per le voci di critica, ma di solito chi è d’accordo non sente il bisogno di comunicarlo. Questo è il mio caso. Non sono molto brava a scrivere, ma tenterò di esprimere il mio pensiero.

Io sono molto contenta di trovare in Missione Oggi le mie stesse idee e punti di vista, e naturalmente molto altro di più, che mi stimola e mi fa “crescere”. In questi tempi duri, e diciamo pure drammatici, che stiamo vivendo, mi conforta vedere che voi avete il coraggio di esprimere ciò che tutti i cristiani dovrebbero pensare e dire.

Certo, la rabbia, la sofferenza e l’impotenza rimangono, ma è importante che ci sia la vostra voce. Ci dev’essere pure qualcuno che si faccia portavoce di chi soffre per la mancanza di pace, di giustizia… Continuate così, e spero che ve lo dicano in tanti. Cordiali saluti.

MARINA COLOMBO.

P.S. Ho partecipato al convegno di Missione Oggi per la prima volta e l’ho trovato molto interessante, mi è piaciuto anche lo stile, semplice ed essenziale.


LETTERA A MONS. RAVASI

Carissimi, mi ha fatto molto piacere leggere sull'ultimo numero della rivista Missione Oggi, l'articolo dedicato al pensiero unico della guerra. Vi ho sentito veramente vicini quando Massimo Toschi ha mirabilmente centrato la questione a proposito del diritto alla legittima difesa. Anch'io sono rimasto turbato dall'articolo apparso alcuni mesi fa sul Sole 24 e scritto da mons. Ravasi. Allora mi sentii solo ma ugualmente arrabbiato e convinto che questo "diritto" era l'ennesima sconfitta di un pensiero che diventava sempre più politico e sempre meno cristiano. Per questo scrissi subito una lettera a mons. Ravasi, dal quale, purtroppo non ottenni risposta.
Ve la inoltro qui di seguito, in segno di amicizia e di totale condivisione al vostro convinto no a qualsiasi compromesso sulla violenza. Saluti vivissimi.

CAIOLA JOSEPH.


  • Egr. prof. Ravasi

anch'io, dopo aver letto il suo articolo L'altra guancia o la spada, apparso qualche settimana fa sul Sole 24 ore, mi sono sentito turbato, insoddisfatto, come se mi fossi trovato davanti ad una sfida non solo culturale o morale, ma ontologica. E la risposta che lei ha dato alle osservazioni del lettore, Sig. Matteo Giuffrida, hanno nuovamente alimentato questo mio disagio.

Una premessa importante: io, professore, l'ho sempre ammirata per la sua apertura culturale, morale e spirituale. Ho spesso trovato in lei molti motivi per riflettere sulla vita e sul nostro mondo. E in quelle occasioni ho trovato sempre in lei la passione, la voglia di verità, ma anche la luce del dubbio, la necessità del confronto. Credo che la passione della vita, quando si riesce a trasmetterla, venga colta nella sua superba bellezza come amore dell’alterità, come proiezione positiva del proprio io, come inalterata passione per il destino comune che ci accomuna. A volte poche parole, una poesia per esempio, possono far sorgere infiniti, imprevedibili indimenticabili stati d'animo.

Questa premessa è importante per un motivo: non ho trovato nessuna passione nelle sue argomentazioni. Mi scuserà se sono troppo severo, ma dopo la lettura dei suoi articoli, questa è stata la più grande delusione…

Ciò che metto in discussione è la facilità e la tranquillità con la quale viene applicata la giusta ricetta di ragione e fede ad un fatto, la guerra, che, invece, chiede molto di più dalla nostra esistenza, e non solo dalla nostra ragione.

La risposta violenta ad un atto terroristico violento non può diventare soltanto una splendida occasione per dire che l'uomo ha il diritto di difendersi perché fu detto "date a Cesare quel che è di Cesare" e nel contempo ha il diritto di credere ad una Giustizia di Dio. Troppo facile. Veramente troppo facile.

Dove sono le domande inquietanti sull'uomo, che lo invitano a denudarsi delle certezze, a dubitare anche delle verità più vere, che lo portano ad invocare Dio per un perdono che lui, l'uomo, non può permettersi di dare a nessuno? Dov'è il grido di dolore di Giobbe e il grido di Gesù mai così vero "Dio mio perché mi hai abbandonato?". Dov'è soprattutto la sofferenza necessaria per affermare il diritto a difendersi dalla violenza? Dov'è la stanchezza del credente di fronte all'ennesima sconfitta dell'uomo? Dov'è quindi il dubbio della fede davanti alla propria impotenza di uomo? E dov'è la fede che chiede all'uomo di sperare e di credere in una vita (terrena o eterna che sia) piena e felice?

Ragione e fede lanciano sfide continue, che non esauriscono mai la nostra capacità e necessità di proiettarci in avanti. Sta a noi credere o meno che sia così. Sta a noi credere che questa sfida è difficile, coinvolge sentimenti, dubbi, verità e ragioni della nostra esistenza.

Ecco ciò di cui volevo parlare. Di un sentimento. Un sentimento di amarezza e di smarrimento, di dolore e di sgomento, di odio e di amore, come penso tanti di noi hanno provato davanti a questa assurda strage e a tutte le stragi che ogni giorno, ogni ora, stiamo compiendo al nostro fratello. Avrei voluto sentirlo anche da lei, questo sentimento. Ecco perché sono rimasto deluso. La saluto cordialmente.

CAIOLA JOSEPH, Cavriana (Mn).


LETTERE APPELLO DELLE DONNE DI RAWA

In quest’appello al presidente Pervez Musharraf, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afgane (Rawa) chiede l’immediato rilascio dei profughi afgani detenuti senza alcun capo d’accusa dalla polizia di Rawalpindi e Islamabad.

Se l’Afghanistan è quasi scomparso dalle prime pagine dei giornali, l’impegno di Rawa (di cui MO ha intervistato una responsabile sul numero di febbraio e marzo 2001) continua. Ne daremo sempre, puntualmente, notizia.

Esimio Presidente, desideriamo portare alla Sua attenzione le recenti azioni di polizia intraprese contro profughi afgani innocenti a Rawalpindi e Islamabad. Circa un mese fa, una pattuglia di polizia è stata assalita a Dhok Saidan, Rawalpindi. Nell'aggressione due poliziotti sono rimasti uccisi e uno ferito. Quest'ultimo ha affermato che gli assalitori sembravano rifugiati afgani.

In seguito a quest’episodio, la polizia di Rawalpindi e di Islamabad ha lanciato una campagna contro i profughi afgani, da cui ha iniziato a pretendere il possesso di un passaporto con un visto pakistano valido. Chi non è in grado di presentare questo documento viene messo agli arresti. Quasi nessuno dei rifugiati afgani in Pakistan è in possesso di un visto valido. E, per questo motivo, la quasi totalità dei profughi che si erano stabiliti nell'area di Rawalpindi e Islamabad, è stata arrestata. La polizia non accetta altre carte, neanche il permesso di rifugiato (shanakati pass), i documenti dei campi profughi, la tessera per le razioni alimentari o altri certificati dell'Acnur; anche coloro che erano in possesso di attestati di questo tipo sono stati arrestati.

La situazione è ridicola, tanto più che al momento il governo pakistano non rilascia alcun visto ai cittadini afgani. Soltanto nei primi quattro giorni della campagna sono stati arrestati a Rawalpindi 2.000 rifugiati, soprattutto nelle zone di Subzimandi, Kachiabadi, Khataria Market e Kahayabani-e-Sir Syed. La polizia di Siala ha arrestato 470 afgani in un solo giorno. Di questi profughi, 1.200 sono stati reclusi nella prigione di Adiala a Rawalpindi, mentre gli altri sono stati rilasciati dalla polizia in cambio di tangenti. La polizia di Rawalpindi e Islamabad ha compiuto raid nelle abitazioni dei profughi afgani e oltre ad arrestarli si è impossessata di tutti i loro averi. Ha arrestato anche molti bambini profughi sotto i 15 anni, perché non erano in possesso di documenti validi. I bambini, per legge, non hanno l'obbligo di possedere e portare con sé documenti di nessun tipo.

Un profugo afgano aveva accompagnato una sua sorella gravemente ammalata a Islamabad per farla curare. Ma mentre la donna si trovava ricoverata in ospedale, il fratello, che era uscito per andare a comprarle alcune medicine, è stato arrestato e portato alla prigione di Adiala. Il fatto che la sorella fosse da sola in ospedale, senza che nessuno si prendesse cura di lei, non è servito a far desistere la polizia. Gli altri parenti hanno scoperto che la donna si trovava in ospedale solo dopo diversi giorni di ricerche. Almeno in una circostanza la polizia di Islamabad ha aperto il fuoco su un rifugiato afgano che aveva cercato di scappare alla vista di una pattuglia. La polizia di Rawalpindi e Islamabad ha arrestato anche parecchie donne rifugiate con l'accusa di non avere documenti validi; la maggior parte di loro è stata rilasciata, solo sei donne sono attualmente detenute nella prigione di Adiala.

Le vessazioni della polizia contro i profughi afgani sono aumentate enormemente. Attualmente nessun profugo afgano può camminare tranquillamente a Rawalpindi e Islamabad senza venire derubato dalla polizia o, se non ha soldi, essere arrestato e spedito in carcere. Oggi i profughi afgani detenuti nella prigione di Adiala senza aver commesso alcun crimine sono dai tre ai quattromila. Di questi sei sono donne, e più di 200 bambini. Le condizioni dei profughi afgani in questo carcere sono particolarmente difficili. Più di un centinaio di detenuti sono ammassati in baracche, che normalmente ne ospitano soltanto 60.

I profughi afgani ricevono cibo più scadente e in quantità inferiore rispetto ai detenuti pakistani. Inoltre, in violazione alla legge, tutti i giorni dalle 6 alle 14 tutti i detenuti afgani sono sottoposti ai lavori forzati (beggar). La legge prevede che soltanto i detenuti per motivi gravi possano essere condannati ai lavori forzati, nessun altro. Inoltre il personale della prigione si impossessa di tutti i soldi, che i prigionieri ricevono dai propri parenti e visitatori.

Le condizioni dei minori detenuti è particolarmente triste. I bambini sono alloggiati nelle stesse baracche degli adulti. I tribunali si sono dimostrati molto lenti nel celebrare i processi dei detenuti afgani. Il collegio di Rawalpindi non ha accettato le cauzioni presentate dai profughi afgani.

DA RIFUGIATI A DETENUTI

Signor Presidente, come Lei ben sa, quando i profughi afgani sono arrivati nel suo paese, il Pakistan ha accettato di trattarli come rifugiati. Soltanto i capifamiglia hanno ricevuto shankati passes e soltanto coloro che risiedevano nei campi profughi hanno ricevuto documenti di campo.

Adesso che inizia a profilarsi la fine della crisi afgana e tutti gli afgani sperano di tornare nella propria patria con dignità e orgoglio, con sentimenti di gratitudine verso i loro ospiti pakistani, è molto triste che siano consentite campagne come questa contro profughi afgani innocenti. Nell'interesse della giustizia e delle relazioni amichevoli tra i popoli del Pakistan e dell'Afghanistan, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afgane (Rawa) si appella alla Sua benevolenza e Le chiede di disporre:

  1. L'immediato rilascio di tutti i profughi afgani innocenti (coloro che non sono coinvolti in alcun processo penale) attualmente detenuti nelle carceri di Adila e in altre prigioni del paese.
  2. Il rilascio immediato di tutte le donne profughe afgane innocenti e dei bambini detenuti nelle diverse prigioni del paese.
  3. L'immediata sospensione delle vessazioni da parte della polizia di Rawalpindi e Islamabad ai danni dei profughi afgani.
  4. Che i profughi afgani innocenti possano essere trattenuti in carcere soltanto fino a quando non dimostrino la propria identità; le donne rifugiate afgane innocenti e i bambini non dovrebbero essere affatto arrestate/detenute.
  5. Che siano accelerati i tempi dei processi pendenti in tribunale dei profughi afgani.
  6. Che i profughi afgani detenuti in prigione o in altre strutture non siano discriminati, né sottoposti ai lavori forzati, a meno che non ordinato da un tribunale.

RAWA

  • È possibile sostenere questo appello inviando lettere di protesta al Presidente del Pakistan, al ministro degli Interni o all'ambasciata pakistana del proprio paese.


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