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Nel calendario di molte Chiese è segnata in gennaio la “settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”, istituita e celebrata per la prima volta dal rev. Paul Wattson a Graymoor (New York) dal 18 al 25 gennaio 1908. L’unità, infatti, non è un accessorio facoltativo delle Chiese, ma un dono di Cristo e un compito affidato ai suoi discepoli: ut unum sint (“perché siano una cosa sola”).

Per questo, ci esorta il Concilio Vaticano II, di fronte allo scandalo della “divisione dei cristiani” è necessario pregare, non solo, ma anche aderire al movimento ecumenico, per rimediare al “grave pregiudizio [che esso reca] alla santa causa della predicazione del Vangelo”. In realtà, nonostante lo scandalo – e forse proprio per questo –, la missione ad gentes ha giocato una parte importante nel promuovere l’ecumenismo, questo straordinario quanto inatteso “dono di Dio” alle Chiese nel Novecento.

Basti ricordare la Conferenza missionaria internazionale di Edimburgo 1910, che ha dato origine al Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Anche gli storici dell’ecumenismo sono unanimi nel sottolineare l’importanza dell’impulso missionario per lo sviluppo di tale movimento, meno da parte delle Chiese ufficiali e più delle Società missionarie (protestanti). Non è un caso che alcune di queste Società siano nate transdenominazionali, cioè non legate ad una particolare confessione (denominazione), per significare che l’autentica missione cristiana non può obbedire a paradigmi confessionali, in quanto rende presente ai non cristiani un mandato e un Vangelo, una fede trinitaria e un battesimo, una vita filiale e una testimonianza, che contengono un potente richiamo post-confessionale, cioè ad andare oltre i confini “confessionali”.

Si legga, a proposito, la lettera del Comitato promotore della prima assemblea mondiale del Cec ad Amsterdam, nel 1948, che sollecita tutte le Chiese – cattolica e ortodossa comprese, che non hanno mai accettato di essere identificate come confessioni tra le altre – a cercare insieme le strade di una testimonianza comune:

“Nell’odierna crisi dell’umanità noi dovremmo renderci conto che il contrasto tra l’alta missione del cristianesimo e le istituzioni che noi chiamiamo Chiese è stridente.

Non è l’organizzazione che ci manca, ma una rinascita delle Chiese esistenti. La discordia fra le Chiese è il grande motivo per il quale noi abbiamo mancato di dare a Cristo la nostra testimonianza. Le nostre Chiese sono divise e ne soffre la religione nella sua dottrina e nella sua vitalità. Noi auspichiamo che venga il giorno in cui Gesù Cristo unisca in un lavoro concorde tutti quanti servono a lui come all’unico Signore”.

Nel tempo del pluralismo religioso e del cristianesimo globale, a oltre cento anni dalla Conferenza di Edimburgo, il rapporto ecumenismo-missione è cambiato: non è più solo la missione a esigere la dimensione ecumenica delle Chiese, ma anche l’ecumenismo a incalzare la missione delle medesime.

Comunque sia, risuona ancora profetico il monito di uno dei delegati cinesi a Edimburgo 1910:

“Ci avete inviato dei missionari che ci hanno fatto conoscere Cristo, e ve ne siamo grati. Ma ci avete anche portato le vostre divisioni.

Vi domandiamo di predicarci il Vangelo e di lasciare a Gesù Cristo stesso di suscitare in seno ai nostri popoli per mezzo dell’azione del suo Spirito Santo la Chiesa conforme alle sue esigenze, che sarà la Chiesa di Cristo in Giappone, la Chiesa di Cristo in Cina […] libera da tutti gli ‘ismi’ che voi aggiungete alla predicazione del Vangelo tra di noi”.



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