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CHIESE VUOTE / PER CHI SUONA LA CAMPANA? EDITORIALE MISSIONE OGGI 03/2020

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L’anno scorso, prima di Pasqua, abbiamo assistito sbigottiti all’incendio della cattedrale di Notre-Dame di Parigi. Quest’anno, abbiamo partecipato in diretta streaming alla Pasqua delle chiese vuote. Migliaia di chiese vuote! Cosa fare? Se ne discute a tutti i livelli. I vescovi italiani hanno addirittura alzato la voce con il governo per riaprirle alle celebrazioni con la gente. Perché questa frenesia di riaprire? Per ritornare alla normalità? Quale, dopo questa pandemia? Non sarebbe meglio, prima, leggere questo svuotamento come un segno che ci viene da più lontano e da più in alto del coronavirus? E se Dio – il Dio di Gesù Cristo, intendo – volesse dirci qualcosa proprio con il linguaggio assurdo delle chiese vuote? È certamente imbarazzante accettare lo svuotamento dei nostri spazi – e tempi – sacri come un monito profetico. Dovremmo avere occhi più penetranti, come quelli dei profeti biblici, che vedevano oltre le paure del popolo, le brame dei re e il formalismo dei sacerdoti. Dovremmo entrare in un processo di discernimento spirituale, a cui non sono abituate, purtroppo, le nostre comunità cristiane, nemmeno quelle di vita consacrata, spesso prigioniere di emozioni e visioni religiose che hanno poco in comune con l’ascolto contemplativo e disarmante della parola di Dio.

Perché non riconoscere allora nelle chiese vuote un segno di quanto potrà succedere in un futuro non molto lontano, se non riformeremo – più evangelicamente – le nostre comunità? E perché prendersela con il coronavirus, che ha soltanto evidenziato – in modo certamente disgraziato – lo svuotamento già in corso? Eppure di segnali d’allarme ne avevamo ricevuti dal Concilio Vaticano II in poi, specialmente in Europa e in gran parte dell’Occidente, dove molte chiese, monasteri e seminari si sono svuotati o chiusi. Li abbiamo snobbati come non rivolti a noi e alle nostre comunità. Ci siamo, invece, ostinati ad attribuire lo svuotamento a cause esterne, soprattutto al fenomeno della secolarizzazione – nelle sue varie dimensioni e tappe –, senza renderci conto, come recentemente asserito da papa Francesco, che “non siamo più in un regime di cristianità…”. Forse questo tempo di chiese vuote può aiutarci a far emergere il vuoto nascosto nelle nostre comunità, le nostalgie liturgiche tridentine, che rendono più problematico il riaggancio della Chiesa alla società di oggi e il recupero del ritardo “di duecento anni” denunciato dal card. Martini.

Forse ci siamo preoccupati troppo – anche noi, istituti missionari – di convertire il mondo e poco di convertire noi stessi, rimettendo al centro il Vangelo di Gesù Cristo: “Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?”. Dovremmo accettare l’attuale astinenza di servizi religiosi e attività pastorali come un kairós, un’opportunità per un discernimento più radicale, davanti a Dio e con la sua Parola. È giunta l’ora di riflettere su come continuare il cammino di riforma, costantemente indicatoci da papa Francesco, con gesti e parole inequivocabili. Forse dovremmo dare più credito anche alle parole del Vangelo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Esse ci insegnano che i problemi delle nostre comunità non sono tanto la mancanza di vocazioni o la scarsità di preti, quanto un nuovo modo di essere Chiesa, dove la ministerialità dei laici, delle donne e delle famiglie, sia riconosciuta come costitutiva della Chiesa stessa. Per questo dovremmo prendere più sul serio, anche in Italia, le proposte del Sinodo Panamazzonico. Quel silenzio spettrale che ha avvolto le solitarie liturgie di questi ultimi due mesi non sta forse gridando il nuovo volto – sinodale – della Chiesa? Per chi suona la campana in tempo di chiese vuote?


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