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Stessa famiglia, stesso cielo: Punto e a capo. Si continua

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La missione non muore

Non lo possiamo negare. La morte, per chi vi si trova vicino e per chi assiste, è un momento di angoscia; è il momento della separazione. La morte ci separa dalle persone e dalle cose che amiamo; ci separa da noi stessi, da quel corpo e da quell’io con cui abbiamo convissuto, con i quali siamo un tutt'uno e che ci hanno permesso di vivere, passando attraverso età ed esperienze diverse.

Inseguiamo la vita, come tutti

Tutti fuggiamo alla morte e inseguiamo, quasi disperatamente, la vita.
Nella cultura orientale la morte è considerata come qualcosa da cui dobbiamo purificarci, perché conduce nel mondo impuro dell'angoscia, da cui vogliamo fuggire, dal quale anche noi certamente vogliamo purificarci, che vogliamo dimenticare. In occidente, si tende a non pensare alla morte, a dimenticarla, per non guastare la gioia di vivere.

Sotto tanti aspetti è così anche per noi missionari, fratelli della stessa famiglia religiosa. Il cuore di carne che batte dentro di noi è uguale a quello di ogni altra persona. Non sfugge alle logiche del dolore, dell’angoscia, della paura.

La nostra fede non è tanto forte da cancellare, con un colpo di spugna, il nostro essere umano o da eliminare ogni forma di paura. Questo non vuol dire che la fede sia meno autentica. Gesù stesso, di fronte alla sofferenza e alla morte, ha pregato e gridato: "Padre, passi da me questo calice di sofferenza…".

Lo stesso dono, nella vita e nella morte

Tuttavia, l'esperienza della morte, che accomuna tutti gli esseri umani al mondo, dal missionario è vissuta in un modo caratteristico. È come se, nel modo di vivere e di pensare del missionario, non esistesse una netta distinzione tra morte e vita.

Per chi ha già lasciato tutto e tutti ed è partito, vita e morte sono legate nel mistero dello stesso dono. Morire è un dono divino come il vivere. Sono due modi diversi di esprimere e utilizzare il dono di sé che il missionario ha fatto, una volta per sempre, a Dio e all'umanità.

Niente, neppure la morte, può separarlo da quella presenza di Dio, che lo ha chiamato e inviato, né da quel progetto della missione, che lo avvolge e coinvolge completamente. Ciò che conta non è il mio piccolo mondo, ma la meravigliosa presenza di Dio.

Questa è l'esperienza della morte che noi missionari facciamo ogni volta che un fratello o una sorella ci lasciano. Ed è un'esperienza straordinaria. Ogni volta, si rinnova per noi l’esperienza dei discepoli del Signore quando, dubbiosi e impauriti, si sentirono dire: ”Sono io. Non temete!”.

La missione della vita continua

Un missionario che ci lascia con la morte, non è la fine di una vita. È un punto e a capo. È il momento in cui la vita ricomincia; diversa da quella precedente, ma continua nello stesso mistero di Dio che infaticabilmente costruisce, in mezzo a noi, il suo Regno senza fine.

Con il punto e a capo, termina una frase. Ma la storia continua; si articola in altra forma; si arricchisce di nuove emozioni. Anche la missione continua: con altri volti, con altri nomi, in altri luoghi...

Il protagonista, rimane sempre Lui: il missionario Gesù Cristo. La sua presenza e la sua opera non hanno fine, mai: "Io sarò sempre con voi”, perché l'umanità "abbia la vita, e l'abbia in abbondanza".



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