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LA PAROLA
Il giorno seguente, quando furono discesi dal monte, una grande folla gli venne incontro. A un tratto, dalla folla un uomo si mise a gridare: «Maestro, ti prego, volgi lo sguardo a mio figlio, perché è l’unico che ho! Ecco, uno spirito lo afferra e improvvisamente si mette a gridare, lo scuote, provocandogli bava alla bocca, se ne allontana a stento e lo lascia sfinito. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? Conduci qui tuo figlio». Mentre questi si avvicinava, il demonio lo gettò a terra scuotendolo con convulsioni. Gesù minacciò lo spirito impuro, guarì il fanciullo e lo consegnò a suo padre. E tutti restavano stupiti di fronte alla grandezza di Dio (Lc 9,37-43).

Il Tabor è alle spalle. I discepoli testimoni della visione rimangono in silenzio. Del resto, l’imperativo del Padre era stato perentorio: “Ascoltate mio Figlio!”. Non si ascoltano soltanto le parole, ma anche i fatti. Luca, come già Marco e Matteo, colloca subito dopo il racconto del ragazzo epilettico.

Gesù aveva affermato che alcuni dei presenti non sarebbero morti prima di aver visto il regno di Dio. Ed ecco una prima realizzazione di quella promessa: tra la gran folla che lo segue si alza il grido di un padre che supplica Gesù di volgere lo sguardo sul figlio malato. È l’unico che ha. Rimanere senza figli avrebbe significato essere consegnati alla vera morte: la dimenticanza. Nessuno avrebbe perpetuato la sua discendenza, nessuno ne avrebbe ricordato più il nome.

Quella malattia terribile aveva segnato tutta la sua esistenza di padre. L’epilessia, chiamata “morbo sacro”, si riteneva frutto dell’influsso degli astri o di qualche demonio. L’imprevedibilità e la drammaticità delle sue manifestazioni erano fonte di vergogna e di incessante preoccupazione. Occorreva essere sempre lì, vigili, per evitare che il ragazzo morisse soffocato, vittima di un’improvvisa crisi. Entrambi ne uscivano sfiniti, in attesa del prossimo attacco.
Il padre aveva cercato aiuto nei discepoli, però loro non erano riusciti a scacciare lo spirito maligno, nonostante il fatto che avessero ricevuto il potere di farlo (9,1-2). Luca non si sofferma sulla loro incapacità, gli interessa di più mettere in risalto la figura di Gesù. Del resto la domanda che serpeggia per l’intero capitolo è proprio questa: “Voi chi dite che io sia?”.

Gesù scoppia in un duro rimprovero, quasi un lamento. Anche lui vive una sfinitezza. Non ne può più di quella generazione senza fede e perversa! Siamo noi diversi da quella generazione? Anche il nostro tempo stenta a credere alle parole del Signore, fatica ad affidarsi a Qualcuno che vada oltre il proprio orizzonte. Il suo cuore si è corrotto dietro ad altri dei. Per non aver voluto credere in Dio, ha finito per credere a qualunque velleità, a qualsiasi riflesso di sé stesso. È un Narciso che si avvinghia mortalmente attorno alla propria immagine. Non muore solo Dio, muore l’altro, il fratello, la sorella. Moriamo noi.

Come quel figlio unico, siamo gettati a terra, agitati e lacerati da spiriti ostili. Abbiamo bisogno di riascoltare il grido di Gesù che impone alla voce del male di uscire da noi, dalla nostra generazione cattiva, convulsa, sanguinante. Abbiamo bisogno di essere ricreati dal profondo del cuore. Anche noi, come il ragazzo epilettico e come il figlio della vedova di Nain, desideriamo essere restituiti all’abbraccio di coloro che ci amano, all’abbraccio di Dio che ci vorrebbe ancora buoni e belli come ci aveva creati. Anche a noi è concesso di vedere il regno di Dio quando le nostre comunità non sono tombe, bensì culle che riabbracciano i figli e le figlie che credevamo perduti.



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