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Martire tra i musulmani: "Io non sono nessuno"

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Annalena Tonelli: amore per l'umanità ferita

Per spiegare chi è Annalena Tonelli sarebbe sufficiente elencare tutte le definizioni che giornalisti, rappresentanti politici, persone comuni hanno dato di lei: angelo della Somalia, dottor Annalena, l’angelo dei poveri, la signora del deserto, grande eroe, l’angelo della grande fame, apolide dell’aiuto umanitario, martire della pace, madre, santa degli sventurati.

Ma, forse, non esiste miglior definizione di quella che Annalena ha dato di se stessa: “Io sono nessuno. Sono una cristiana, donna con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza, che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà”.

Mi sento al sicuro, nelle mani di Dio

Annalena Tonelli è una volontaria laica, nata a Forlì. Ha dedicato più di trent’anni della sua vita aiutando i nomadi, gli handicappati, i bambini ciechi e sordi, le donne sottoposte a mutilazioni genitali, prima in Kenya e poi in Somalia. Il 5 ottobre del 2003 un colpo d’arma da fuoco alla testa l’ha uccisa nella sua stanza, all’interno dell’ospedale di Borama, città di cinquanta mila abitanti nel Somaliland, una zona a nord ovest della Somalia, che dal 1991 ha dichiarato l’indipendenza.

La sua discreta presenza e intensa attività di servizio amorevole le avevano procurato molti nemici nella zona; aveva ricevuto molte minacce delle quali, raccontano gli amici di Forlì, non si curava. “Paura che un fondamentalista mi uccida? Ma io qui mi sento al sicuro: sono parte della comunità, la gente qui sa che se un fondamentalista mi uccide questo peggiorerà la loro condizione. Questo per ora mi ha sempre protetto: il resto si sa, è nelle mani di Dio”. Così diceva qualche mese prima di essere assassinata.

Il suo carnefice non era un folle; la sua uccisione non è stato un gesto di pazzia. I fondamentalisti non sopportavano l’idea di una donna bianca e cristiana in mezzo alla loro gente; i clan osteggiavano apertamente la sua attività in favore delle donne; i settori più conservatori della società non digerivano l’idea che qualcuno facesse di tutto per dimostrare che i bambini sordi o ciechi, gli storpi, i portatori di handicap non sono persone da rifiutare, ma da aiutare.

Stare con la gente

I pericoli non l’hanno mai spaventata: “Per poter aiutare la gente bisogna stare in mezzo a loro: questa è la mia strada, io non ne vedo un’altra”. Ha sempre dato tutta se stessa per l’Africa, dall’inizio alla fine. Entrò in Kenya da insegnante, nonostante avesse una laurea in legge conseguita a Bologna, perché era l’unico modo per avere il permesso di entrarvi.

Si mise a studiare medicina ottenendo la specializzazione nella cura di malattie tropicali e nefrologiche. Nel 1984 una coalizione di forze armate keniane aveva deciso di sterminare un’intera tribù di somali a Wajir, nel nord del Paese. Annalena riuscì a fermare il massacro, ma dovette lasciare il Paese in ventiquattr'ore.

Ha sempre lavorato con i malati di tubercolosi; nel 1976 aveva dato inizio a un progetto che nel 1993 è stato riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è diventato famoso in tutto il mondo: "la terapia sotto diretta osservazione"(Directly Observed Therapy). È una terapia verificata quotidianamente che associa la diagnosi a una scelta particolare di medicine, date direttamente al malato. Così il tempo di cura si riduce da 18 a 6 mesi.

Purtroppo, mentre la cura dava i suoi frutti, cresceva la piaga dell’Aids in un ambiente musulmano dove il rifiuto di questa malattia è fortissimo.

Un'opera che continua con gli amici

Annalena è riuscita comunque a cambiare l’Africa e il suo sacrificio non è stato vano. L’ospedale di Borama ha oggi 250 posti letto e uno staff di 50 persone. Dei suoi pazienti diceva: “quando gli ammalati tornano a sperare, a credere nella vita, a sentire la bellezza della vita, è certamente una gioia grande. Io sono parte di loro e loro mi considerano così”.

L’ospedale, ora, sta andando avanti con l’aiuto di tutti. La sua città, Forlì, contribuirà a far sì che questo accada. Comune e Provincia investiranno 120 mila euro l’anno, mentre altrettanto farà il Comitato per la lotta contro la fame del mondo da lei fondato.

L’amministrazione comunale le ha dedicato un giardino del centro storico e un piazzale davanti al Comitato, quella provinciale le ha intitolato il Centro per la pace e i diritti umani.

“Ha già perdonato”

Le spoglie di Annalena, per sua volontà, riposano a Wajir, in quel Kenya da cui è dovuta fuggire in fretta e furia. Il fratello Bruno, medico e anello di congiunzione tra la missionaria e la sua terra d’origine, prima di partire per le esequie ha detto:

“Sono sicuro che Annalena ha già perdonato chi l’ha uccisa. Lei ha vissuto nell’amore e ha testimoniato solo quello. Era instancabile, sempre felice e sempre in movimento. Quando parlava della “sua gente”, dei brandelli di umanità, era incredibile. Diceva che dobbiamo amare queste persone, perché sono le persone più vicine a Dio”.

L’ultima scommessa di Annalena era l’impegno nell’istruzione. È riuscita ad aprire una scuola per sordomuti; ma la frequentavano anche i ragazzi “normali”, perché i genitori sostenevano che lì si imparava di più e meglio.

Tornava raramente in Italia. Nel 2002 il presidente Ciampi le aveva conferito l’onorificenza di commendatore; nel giugno scorso l’alto commissariato Onu per i rifugiati l’aveva premiata con il Nansen Award, il riconoscimento attribuito ogni anno a chi si è distinto per il suo lavoro in favore dei rifugiati. Annalena accettò solo come ringraziamento per chi l’aveva tanto aiutata: il comitato, la madre, la famiglia. I centomila dollari del premio li aveva utilizzati per l’ospedale.

“Sono grata per l’attenzione concessa alla mia amata Somalia – aveva detto; adesso posso dar voce a una popolazione che non ne ha”.



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