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La stessa sete di Gesù in croce…

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Vorrei ora offrire qualche riflessione, lasciandomi aiutare dal testo di Josè Tolentino Mendonça, “Elogio della sete” (Vita e pensiero, 2018). Gesù, sulla croce, ha avuto sete di giustizia e pace, donando la sua vita per il bene dell’umanità intera. Mons. Munzihirwa ha avuto questa stessa sete di Gesù, impegnandosi personalmente in favore della dignità umana minacciata. Come Lui, ha avuto sete del popolo e ne è diventato servitore. Ha desiderato, infatti, aiutare e dare sé stesso, affinché la vita della sua gente diventasse più bella, più serena, più gioiosa, più autentica.

La sete di Gesù è poi la sete di Dio stesso che vuole che tutti siano salvati. Il grido di Gesù in croce “Ho sete!” (Gv 19,28) diventa la missione della chiesa sotto tutti i cieli. Questa sete è una delle caratteristiche dei santi. San Francesco Saverio la percepiva e domandava di servire sempre di più, di andare sempre oltre…sempre più lontano. Santa Madre Teresa di Calcutta ha sentito questa sete profondamente e ne ha fatto lo scopo della sua congregazione, che esiste per estinguere l’infinita sete di amore per le anime di Gesù sulla croce.
La missione della chiesa è udire questa voce di Gesù, questo suo grido in croce: “Ho sete!”. Ho sete di liberare tutte le persone dalle loro catene, prima di tutto quelle visibili, concrete, della fame, della guerra, della violenza per dare tranquillità, pace e serenità. A guardare certe situazioni nel mondo fa venire da piangere, soprattutto per l’impossibilità di fare qualcosa. Questo pianto ci ricorda la beatitudine di Gesù: “Beati voi che piangete ora, perché sarete consolati…” (Lc 6,21). Lasciarci affliggere, lasciarci toccare, questa empatia scava in noi uno spazio che solo Dio può soddisfare.

Questa sete poi ci rende vulnerabili, ci dà coscienza di quanto siamo piccoli e fragili; ci dice quanto siamo inadeguati davanti ai bisogni immensi del mondo, soprattutto di chi vive in situazioni difficili. Anche San Paolo ha vissuto un sentimento simile: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.” (2 Cor 12, 9-10).
Questo linguaggio, nel nostro mondo, è paradossale. È da pazzi fare un discorso simile, secondo i criteri del mondo. Eppure, per mons. Munzihirwa è proprio nella sofferenza, nella violazione dei diritti umani, nelle tragedie più immani, davanti a ciò che è umanamente orribile, che egli ha trovato una forza più grande. È dimorando nella sete degli altri che egli ha affinato le sue strategie di azione, fino a diventare, giorno dopo giorno, esperto nel bene, nella giustizia, nella carità. Ha approfondito la “scientia amoris”!

Anche il Saverio fece un’esperienza simile e nelle sue interminabili notti di preghiera chiedeva: "Non allontanarmi, o Signore, da queste tribolazioni se non hai da mandarmi dove io possa soffrire ancora di più per amore tuo". Per papa Francesco “certe realtà si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime”. Lasciarsi interpellare, lasciarsi toccare e affliggere in profondità, tutto questo ci aiuta ad aprirci a quella speranza del Regno di Dio. Mentre l’indifferenza ci rende il cuore duro, chiuso, insensibile.
Le Beatitudini sono l’autoritratto di Gesù, ci disegnano i suoi lineamenti più veri e sacri: il povero in spirito, il mite, il misericordioso, l’assetato di pace, l’affamato di giustizia, capace di accogliere, il puro di cuore e il perseguitato per il Regno. Le Beatitudini ci fanno assomigliare sempre di più a Gesù. Anche Dio desidera, per noi tutti, la beatitudine. Anche Mons. Munzihirwa ha desiderato e ancora desidera tale beatitudine per i popoli della regione dei Grandi Laghi. E per far questo, ha “esagerato”, fino a dare la vita.



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