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Il senso della morte nella vita del missionario

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Mi è stato chiesta una riflessione sul significato della morte nella vita del missionario: dove per morte s’intende anche dire dolore e croce, tribolazione e prova, immolazione e sacrificio. Sì, si tratta d’una delle idee fondamentali e, direi, costitutive dell’apostolato in genere e di quello missionario in particolare. Il Missionario o regala e impegna tutta la sua vita mettendola alla più completa discrezione dei più bisognosi, o non è missionario.

L’apostolo è, di sua natura, una persona immolata e sacrificata nel modo più radicale e totalizzante.

San Paolo, che si presenta come l’apostolo ideale, usa un frasario impressionante ed efficientissimo. Secondo lui, l’apostolo è un uomo destinato alla morte, come una pecora da macello: perseguitato e abbandonato da tutti, deve affrontare fatiche e tribolazioni d’ogni genere. Paolo soffre per i suoi figli come una madre e, come una madre, li genera nel dolore, se li protegge e tiene caldi al seno; come una madre è sempre in angoscia e si strugge; come una madre, in proporzione che soffre, ha il supremo onore e la gioia suprema di comunicare la vita con la sua morte.

Questa immagine splendida è usata anche da Gesù che si è compiaciuto di dire:

"La madre, quando è arrivata la sua ora, soffre, ma quando ha dato alla luce il suo bambino, gode per la grande gioia che è arrivato al mondo un altro uomo!"

L’immagine della madre che soffre ce ne richiama un’altra fondamentale e importante: quella di Abramo, nostro padre nella fede, che porta il suo figlio Isacco, il suo "unico figlio che amava", sul monte Moria per immolarlo – offrirlo a Dio. Anche la madre del missionario sacrifica – immola il suo figlio a Cristo e ai suoi fratelli più bisognosi. Anche la madre imita e ripete il gesto eroico di Abramo, che, portando il suo figlio sul monte, piange e soffre; tuttavia ubbidisce coraggiosamente alla parola di Dio che mette alla prova la sua fede. Anche la madre, come Abramo, piange e soffre ancora i sacri dolori del parto generando il figlio all’apostolato missionario.

Si tratta di una seconda generazione e di un’altra fecondità, che necessariamente deve costare lacrime e sangue, secondo la sacra legge della generazione: "darai alla luce soffrendo!". E, se grande è il dolore della madre che genera secondo la carne, tanto più grande dev’essere il dolore della madre che rigenera il figlio all’apostolato. Ma tanto più grande sarà anche la sua gioia. Sicchè: dolore – gioia – apostolato sono un trinomio sacramentale indiscutibile.

È la legge pensata da Dio e sigillata dalla vita e dall’insegnamento di Gesù, che è morto in croce per noi e ci ha detto: "Se il grano di frumento, caduto in terra non muore, rimane solo".

Senza la morte del grano, la spiga e il buon pane che ci nutre sono impossibili. Rifiutare la sacra legge della morte e del dolore, del sacrificio e dell’immolazione, è scegliere il castigo tremendo dell’infecondità e della morte: in questo modo, la vita si spegne inesorabilmente.

Come la madre, anche il missionario deve farsi buon Pane spezzato e buon Vino versato, esattamente come Cristo nell’Eucaristia, che ripete il gesto supremo della sua morte per la nostra vita. Come la madre, anche l’apostolo deve vivere ciò che avviene sull’altare: farsi quotidianamente buon pane spezzato e buon vino versato. In questa quotidiana sacramentale immolazione, egli troverà tutta la sua gioia e il successo del suo apostolato missionario.

Non possiamo non pensare alle celebri parole che la mamma di san Giovanni Bosco gli disse nel giorno della sua ordinazione sacerdotale:

"Ricordati, figlio mio, che essere prete vuol dire soffrire".



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