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I ''figli della rugiada'' a Manila

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Per la testimonianza missionaria, oggi più che mai, si tratta di imparare a mettere in pratica la più elementare "grammatica umana": essere con l'altro, amare ed essere amato. Ed è in questo spazio, che occorre trasmettere la Buona Notizia come proposta di vita, come modo di essere e di camminare insieme (e non come ideologia).

Succede spesso, anche a noi missionari, di sprecarci in sottili distinzioni su scelte e strategie o di discutere all'infinito su una parola o un'altra. Credo sia molto più importante cercare di "focalizzare" le nostre energie per il vissuto quotidiano: vedere con sguardo di fraternità, cioè prestare attenzione, esserci, capire e agire insieme.

Tanti piccoli semi di Dio

In varie situazioni ho potuto sperimentare come la bontà e la solidarietà non siano precluse ad alcuno, ma siano accessibili a tutti, al di là della nazione, della razza o della religione. La bontà - nelle sue varie forme - si accontenta dell'umanità di ciascuno, confermando il detto: "Solo è senza virtù chi non la vuole".

Solidarietà, fratellanza, comprensione, tolleranza, amabilità non sono frutto di una cultura, né sono appannaggio di una religione o stato sociale. Vanno oltre i tempi e gli spazi nei quali spesso pretendiamo di incasellare tutto e tutti. Sono piccoli semi di Dio deposti nella coscienza di ciascuno e tocca a noi farli crescere, fiorire e fruttificare.

A questo proposito, condivido volentieri un racconto, conosciuto durante la mia permanenza nelle Filippine e molto simile ad alcune esperienze vissute.

Sotto i ponti di Manila

Jun, 15 anni, era uno dei "bambini della rugiada" che vivono sotto i grandi ponti che attraversano il boulevard Edsa, la più trafficata strada di Manila: 25 chilometri a cinque corsie, con giganteschi tabelloni scintillanti, dove il traffico si trascina lentamente durante le ore di punta.

Gli abitanti di uno slum vicino al Guadalupe Bridge chiamano queste bande "figli della rugiada" (mga batang hamog), espressione che richiama alla mente l'umidità che si forma all'alba sulla superficie fredda dei ponti in acciaio, sotto i quali loro vivono.

Durante il giorno, questi ragazzi dormono o guardano freddamente il traffico, spesso sedati dal vapore di solvente e colla, che annusano da sacchetti di plastica. Di notte, vagano sull'ampio boulevard alla ricerca di borse, collane o telefoni cellulari da strappare a passeggeri frettolosi in attesa del loro viaggio in autobus.

Una volta, sono stati catturati grazie alle telecamere a circuito chiuso, mentre attaccavano un taxi. L'autista tentava di chiudere la portiera, mentre uno dei ragazzi rapidamente afferrava la piccola scatola sotto il sedile dove il conducente teneva i guadagni di giornata. Uno dei quattro ragazzi catturati era Junche: quella notte aveva fatto da "palo" durante l'assalto dei suoi compagni. Il giorno seguente era su tutti i telegiornali come icona della trasgressione giovanile.    

Jun e la gang giovanile

Jun e i suoi quattro fratelli erano nati in una delle baraccopoli abusive di Manila, prima di essere stati re-insediati a Taytay, un sobborgo industriale della zona metropolitana. I suoi genitori erano contadini che venivano da Davao, nel sud delle Filippine. Non più in grado di sopravvivere nella grande metropoli, decisero di tornare con l'intera famiglia a Davao.

Per ragioni di sicurezza, Jun a 11 anni era stato portato di nuovo a Manila da suo padre e lasciato nella famiglia di un conoscente, con la promessa che sarebbe tornato a riprenderselo prima di Natale. Jun non vide mai più suo padre. Schiacciati dai problemi, i suoi "nuovi genitori" non mostrarono nessun interesse nel prendersi cura del loro giovane "ospite". Jun dovette lasciare la scuola elementare e, non sentendosi accettato, abbandonò la casa e si unì a una di queste bande.

La samaritana musulmana

Jun sembrava tuttavia un po' diverso dagli altri. Era schivo ma anche affabile. Piuttosto lento nei suoi movimenti, pur continuando a vivere sotto il ponte di Guadalupe, volentieri frequentava varie famiglie dello slum vicino, soprattutto la famiglia di Taj, una gentile signora musulmana con tre piccoli bambini.

Il 3 ottobre 2011, appena dopo la mezzanotte, la signora Taj fu svegliata dai ragazzi della banda di Jun. Le dissero che era stato investito da un'auto lungo il boulevard Edsa. Quando Taj arrivó in ospedale, Jun era in coma, in lotta per la vita. Racconta Taj che Jun sembrava in pace, aveva il braccio sinistro - con il tatuaggio del soprannome e la data del compleanno - teso, con la flebo inserita. Poco dopo morì.

Jun non poté fare nulla per cambiare il destino della sua vita e, al di fuori di alcuni abitanti dello slum vicino al ponte di Guadalupe, nessuno sa che è esistito. Taj si diede da fare per il funerale e la sepoltura di Jun, chiedendo aiuto ai vicini, a varie persone e istituzioni. Fu vegliato per vari giorni, come spesso si usa nelle Filippine, all'aperto, in un campetto comunale di pallacanestro.

Taj poi chiamò un prete cattolico, per la benedizione della salma e la Messa. Con la sua generosa azione, questa buona samaritana musulmana è riuscita a ricolmare tutti i deficit di tenerezza umana che avevano segnato la breve vita di questo ragazzo.

La passione per il possibile

Fatti come questi - e ce ne sono tanti nel mondo - sono un grande invito a sperare! L'umanità di Taj, musulmana, è un messaggio universale e divino in quanto ci rivela la continua azione del Dio vivo, che "presta attenzione" e che si fa presente nell'umanità di ognuno. Teofilo di Antiochia aveva proprio ragione: "Mostrami la tua umanità e io ti dirò chi è il tuo Dio!".

Infatti, nell'umanità di Gesù abbiamo cominciato a conoscere e a capire chi è Dio. L'invito, anzi l'appello, che ne scaturisce è per una "missione semplice" che s'impegna a immettere energie di speranza e amore nelle situazioni concrete in cui siamo, esercitando ciò che io chiamerei "la passione del possibile", o in altre parole, la passione per ciò che è possibile, al di là delle inevitabili e imprevedibili incertezze della vita.

Per una missione così ci sarà sempre spazio e tempo. Sarà una missione che presta attenzione alla sorte dell'altro (Eb. 10,24), percepito come fratello in umanità.

Sarà una missione con cuore giovane, che non invecchia mai, e che "usa" la nostra umanità per narrare l'eternità. Per dire chi è Dio nello stile di Gesù.



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