Como, città e chiesa di frontiera
Dall’estate 2016, improvvisamente, Como, è diventata un luogo di transito per uomini e donne in viaggio verso il nord Europa. Di fronte a così grande urgenza, la città e la chiesa si sono subito attivate con tante iniziative d’accoglienza. Ce ne parla Michele Luppi, firma del settimanale diocesano.
Il 27 febbraio un uomo di origine africana è morto sul tetto di un treno diretto dall’Italia alla Svizzera. Non sappiamo ancora la sua identità. È il primo migrante a morire nel tentativo di oltrepassare la frontiera tra Italia e Svizzera da quando (luglio 2016) Como è divenuta sempre più un luogo di transito per uomini e donne in viaggio verso il nord Europa.
Giovanissimi non accompagnati
Dopo i picchi dell’estate scorsa, quando il parco della stazione S. Giovanni si era trasformato nella “casa” per cinquecento persone, i numeri dei migranti in transito sono diminuiti sensibilmente, ma non si sono fermati, anzi. Sono stati 34mila i tentativi d’ingresso illegale in Ticino nel 2016, quasi tutti attraverso la frontiera di Chiasso.
Si trattava principalmente di giovani uomini provenienti da paesi africani (Eritrea, Gambia, Guinea, Nigeria, Etiopia e Somalia), molti poco più che adolescenti, parte di quei 26mila minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia, a cui Papa Francesco ha dedicato il messaggio per la Giornata mondiale del migrante.
Una settantina di questi ragazzi è ancora a Como, nel campo per migranti in transito in via Regina Teodolinda e gestito dalla Croce Rossa, in collaborazione con la Caritas diocesana.
Un dramma nel dramma
“La maggior parte dei migranti che incontriamo manifestano, seppur in forma differente, sintomi post-traumatici: difficoltà a dormire a causa di immagini che tornano ripetutamente e li tormentano, fino a dolori fisici di carattere psicosomatico”, racconta Nathalie Leiba, psicologa di Medici Senza Frontiere (MSF).
Un dramma nel dramma che non sembra scuotere la città. Perché, passata la prima emergenza, il rischio è oggi quello di abituarsi a una situazione di cui non si capiscono i contorni e non si intravedono soluzioni.
Cosa facciamo noi, comuni cittadini, prima ancora che cristiani, davanti a tutto questo?
Como ha provato a rispondere a questa sfida. Esperienze come la mensa attivata nei locali dell’oratorio di Sant’Eusebio, grazie al lavoro di centinaia di volontari, dimostra che una risposta c’è stata e che le differenze possono essere messe da parte per qualcosa di più grande.
Un canto alla gloria di Dio
Non possiamo nascondere come la fatica sia molta e anche le resistenze, dentro e fuori la chiesa.
Per ogni parrocchia che apre le sue porte, ce ne sono almeno cinque che non fanno altrettanto. Una chiusura espressa più con l’indifferenza, vestita di impotenza, piuttosto che di rifiuto.
Quella che abbiamo di fronte nei prossimi mesi e anni è allora una sfida a cui tutti siamo chiamati a dare una risposta. Non sarà facile, ma sull’esempio di papa Francesco dobbiamo provarci.
Mi risuonano nella mente, come un impegno, le parole del filosofo francese, Jacques Derrida, nel libro Addio a Emmanuel Lévinas:
“Che un popolo accetti coloro che vengono a insediarsi sulla sua terra, per quanto stranieri essi siano, con le loro usanze e i loro costumi, con le loro lingue e i loro odori, che dia a loro un’accoglienza come riparo, offrendo di che respirare e vivere. Questo è un canto alla gloria del Dio d’Israele”.