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Nataka kufanya vile (voglio fare così)”. Veramente sarebbe più giusto dire “Ningetaka (vorrei)” perché tutti abbiamo dei desiderio, dei sogni da realizzare. I miei fratelli e sorelle africani ne hanno tanti, ma il poter realizzarli, questo è il problema.

Non basta volerlo, ci vogliono anche le condizioni perché diventino realtà.

Purtroppo in molte nazioni c’è una dittatura, più o meno velata. Molti presidenti (sarebbe meglio forse chiamarli capi tradizionali) cercano in tutti i modi, leciti e non, di cambiare la costituzione per rimanere al potere fino alla morte. Intono hanno una schiera di adoratori interessati che li applaude, sapendo che potranno anche loro avere le briciole che cadono dalla loro tavolo.

Come dice il proverbio africano “chi sta sulla pianta, butta giù i frutti a quelli che stanno sotto” perché “la capra mangia dove è legata”.

E allora cosa fare? Nel tempo, nei villaggi c’era la solidarietà. Tutti ci si aiutava per rendere il villaggio forte e quelli che ci abitavano sapevano di contare l’uno sull’altro.

Anche i riti, le feste, i momenti di gioia e di lutto: tutto serviva per cementare l’unione. Solo chi non aveva voglia di lavorare, di collaborare, era messo in disparte. Ora invece è entrato il virus dell’interesse personale o di quello del proprio partito e così chi è debole, chi non conta niente, viene lasciato in disparte. Quante volte, andando nei villaggi, nelle comunità di base, di fronte alle lamentele della gente sulla situazione di povertà, di ingiustizia, abbiamo detto che bisognava mettersi insieme, lavorare uniti.

Mi ricordo un fatto successo quando ero nella parrocchia di Luvungi, in Congo RDC.

Noi eravamo al confine del Rwanda. Là ci sono due tribù: i Tutsi, allevatori di bestiame, e gli Hutu, agricoltori. E’ una nazione piccola, ma densamente popolata. Naturalmente chi allevava il bestiame, aveva bisogno di una grande estensione di terreno per far pascolare le proprie mucche, mentre gli altri avevano bisogno di terra per coltivare e mangiare. C’erano sempre problemi.

I primi allora cosa pensano di fare? Si accordano con le autorità locali della nostra Zona (il sindaco, i capi) per avere del terreno per le loro mucche. Ma anche da noi la gente coltivava i terreni per vivere. Ma chi comanda ha sempre ragione e non si può andargli contro. E così piano piano, con violenza, la gente veniva cacciata via dai propri campi a beneficio delle mucche.

Un giorno, alcune persone di varie religioni (cattolici, protestanti…) si uniscono per fare un Comitato per la terra.

Vengono in parrocchia per chiedere un salone per fare le loro riunioni, per decidere la linea da seguire in questa situazione tragica. Naturalmente glielo concediamo. Dopo qualche giorno, arriva il sindaco e mi dice che io sono contro il benessere dello Stato (o meglio di qualcuno), che così non va…insomma una minaccia che può arrivare anche all’espulsione. Io rispondo molto semplicemente che mi avevano chiesto un locale e come facciamo di solito, lo mettiamo a disposizione. Se ne va poco convinto.

Ed è la medesima cosa che succedeva in chiesa, durante le omelie domenicali. C’era sempre qualche spia pronta a riferire ai servizi segreti quello che diceva il padre, in modo da accusarlo, se era necessario. Noi, naturalmente, sapevamo tutto questo e usavamo delle frasi indirette per far capire quella che era la situazione. Non potevamo fare molto di più, perché era la gente che doveva diventare protagonista del cambiamento della propria nazione. Noi eravamo là per incoraggiarli e per far capire loro che non si sentissero soli.

Un cammino lento “pole pole ndiyo mwendo (piano piano è il modo di camminare)”.

L’importante era non perdere la speranza.



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