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Unalota o unasinzia, padiri? (sogni o stai sonnecchiando, padre?)”. Era la voce di una mamma che stava tornando dal lago, dove era andata a lavare i panni. Ero seduto all’ombra di un mango vicino alla nostra missione di Baraka, in Congo RDC.

Risposi: “Ulisema nini? (cosa hai detto?)” e mi risvegliai di colpo. Quella mamma, come tutte le mamme, si preoccupavano dei bambini. E io ero un po’ diventato il loro figlio adottivo, visto che venivo da lontano. Mi stropicciai gli occhi, mi alzai e le diedi la mano, come si fa in Congo. Mi sorrise. Cercai un qualcosa per farla sedere. Si vedeva che era stanca e sudata. Feci una corsa fino in casa per prenderle dell’acqua da bere.

Ni baridi? (è fredda?)” mi chiese. E ne bevve due o tre bicchieri. Forse era dalla mattina che non beveva niente. Si accomodò per bene sullo sgabello e cominciò a riempirmi di domande sulla mia famiglia, sui genitori, sulla sorella, sul posto dove ero nato. Era un po’ curiosa, ma le risposi molto volentieri. Sembrava soddisfatta. Io, però, volevo chiederle una cosa che da un po’ mi girava per la testa ed era questa: tu e la tua famiglia quali sogni avete per il futuro?

Non era una domanda difficile. Il problema era la risposta. Mi sorrise un’altra volta. Mi disse: “Unihurumie, niko na haraka. Niko na kazi mingi nyumbani (perdonami, ho fretta. Ho tanto lavoro da fare a casa)”. E rimettendo sulla testa il canestro con i vestiti che aveva fatto asciugare sulla sabbia, mi disse, andando via. “Uanze kuuliza kwa watoto, wavijana, wababa na wamama na wazee na utapata jibu (comincia a domandarlo ai bambini, ai giovani, ai papà e alle mamme e agli anziani e avrai la risposta)”. E così da quel giorno cominciai la mia inchiesta personale. Le risposte arrivavano piano piano. Ognuno, a suo modo, sognava un futuro migliore, felice, tranquillo. I bambini volevano crescere bene insieme agli altri, imparare tante cose, mangiare e non soffrire troppo e naturalmente giocare a sazietà.

I giovani invece volevano conoscere il mondo e tutto quello che si faceva in altri paesi, non volevano rimanere nel villaggio. Si sentivano pronti a conquistare il mondo.

I papà e le mamma guardavano al benessere della famiglia, dei figli, un po’ di serenità, di giustizia e di rispetto da parte delle autorità verso il loro lavoro. Non sopportavano più le ingiustizie e non sapevano come combatterle. Gli anziani, nella loro saggezza, pur rimpiangendo il tempo passato, sentivano che stavano cambiando tante cose e non si sentivano pronti a viverle. Erano stanchi. Avevano lavorato tanto, avevano subito tante ingiustizie durante il tempo delle colonie e anche ora con i nuovi padroni della loro stessa razza. Avevano paura del futuro e aspettavano, più o meno serenamente, il tempo di prendere la piroga per il viaggio verso la terra promessa, dove finalmente avrebbero trovato la pace e il riposo.

Tanti sogni che uniti ai miei, potevano diventare una sola cosa.

Io non ero venuto a realizzare i loro sogni, ma a sognare insieme, mettendo ognuno il proprio colore. Sogni grandi o piccoli, non importa. L’importante è sognare e credere che se ci si mette insieme qualche sogno si realizza. Qualcuno prima di noi ci aveva detto che sognare un mondo migliore è una cosa bellissima e lo potevamo fare. Lui ci avrebbe dato una mano. Ma non bisogna abbandonarsi ai sogni, e lasciare che sia il sogno a fare tutto. Abbiamo il permesso, ogni tanto, di sonnecchiare, però poi ci dobbiamo sfregare gli occhi, darci una bella sciacquata e insieme mettercela tutta.

Chissà che riusciamo a realizzarne qualcuno. In swahili, uno si dice “moja” e tutti i “moja” insieme fanno l’ “u-moja” (unione).

Basta una letterina davanti e tutto cambia.



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