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Se tu entri in una scuola elementare (primaria) africana, soprattutto nella prima classe, ti capiterò di sentire la maestra che fa ripetere ai bambini le lettere che scrive alla lavagna. Scrive “A” e tutti in coro ripetono “A”. E così via.

Un po’ come capitava a noi cinquanta e più anni fa. Forse eravamo un po’ più fortunati perché, per ogni lettera, c’era un cartellone colorato, con diversi nomi che cominciavano con quella lettera dell’alfabeto. Ricordi lontani che ritornano, entrando tra quei bambini, tutti vicini vicini su delle tavole che sembrano delle panche e dei tavolini che sembrano lontani parenti dei banchi. Questa è tutta l’attrezzatura scolastica, oltre alla lavagna, pitturata di nero. Eppure li senti ripetere in coro. Sono sessanta-settanta o più. Vogliono imparare a leggere, perché sanno che senza di questo, non andranno molto lontano.

Quegli strani segni che poi riportano nel quaderno o sulle lavagnette o anche sulla sabbia, aprono loro un mondo nuovo, sconosciuto, ma di cui fanno parte. E giorno dopo giorno, li mettono insieme e diventano parole. Con pazienza li trascrivono e cominciano a fare delle frasi compiute e così gli anni passano, tante cose nuove arrivano nella loro mente. Quando passano nelle scuole superiori sentono l’esigenza di avere un luogo dove poter conoscere meglio quello che succede nel mondo. E per questo in molte missioni, si cerca di aprire delle biblioteche, dove possono leggere, studiare anche fino a tardi, perché c’è la luce elettrica.

Cominciano a farsi delle domande. Perché qualcuno ha più cose di noi, perché c’è più libertà in altri paesi che nel nostro, perché? Perché? Perché?.

Allora tu ti metti vicino a loro, li ascolti e cerchi di spiegare con calma la storia, ma a trovare la risposta ai perché non è facile, perché forse dovresti dare delle risposte cha a loro non piacciono, che li fanno soffrire.

Ma non puoi abbandonarli. Li devi aiutare a crescere, a prendersi le loro responsabilità e soprattutto a non considerare i loro genitori (che spesso non sanno leggere e scrivere, ma che sanno bene fare i conti, quando vanno al mercato per vendere e comperare…) come della gente arretrata, che non capisce niente. Loro non hanno avuto le possibilità che i loro figli adesso hanno e sono orgogliosi che possono imparare tante cose. Il mondo per loro si era fermato al villaggio o qualche volta alla grande città.

Ora i figli cominciano a frequentare persone nuove, ad utilizzare strumenti nuovi per conoscere (anche i social media) e si chiedono se tutto questo porterà benessere anche alle loro famiglie. Poi, magari ascoltando la radio, sentono delle notizie di guerra, di fame, di malattie e allora si chiedono se è proprio vero che il cosiddetto progresso è una cosa buona. I figli dicono che questo è il prezzo da pagare per un mondo nuovo, ma la mamma, quando ha tempo, se ne prende qualcuno tra le braccia e comincia a fargli delle domande.

“E poi, dopo che hai studiato tanto, te ne andrai in Europa o in America e ci lascerai soli? Come faremo a vivere, senza di voi?”.

E qui la risposta si fa attendere molto. Si fanno delle promesse, s dice che loro sono sempre nel cuore, ma che i figli, come la freccia scoccata dall’arco, devono andare lontano, che un giorno ritorneranno e porteranno tanti regali, che scriveranno ogni tanto (ma chi leggerà le lettere ai genitori?).

Un mondo lentamente se ne va e un nuovo mondo comincia.

Così è scritto nei libri, sui giornali, alla televisione… ma chi rimane come fa a saperlo che ora si devono ritirare in buon ordine?



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