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Al mattino presto, passavano vicino alla missione per andare al fiume ad attingere acqua. Erano mamme, ragazze che con un bidone in testa cominciavano la dura giornata. Bisognava attingere l’acqua per la pulizia della casa e per fare da mangiare. Scendevano per un ripido sentiero verso il fiume.

Cantavano allegramente, senza pensare alla fatica che le aspettava. Poi arrivate all’acqua, attingevano e riempivano il bidone di plastica di 20 litri. Se lo mettevano in testa e come se niente fosse, risalivano la collina, una dietro l’altra. Il bidone non cadeva! Arrivate in cima, si riposavano un poco, sempre con il bidone pieno in testa e si mettevano a chiacchierare.

Io le guardavo e mi chiedevo come facessero. Sembrava una cosa semplice per loro.

Poi, piano piano, si dirigevano verso casa. Anche le ragazzine, con un bidoncino, imparavano “il mestiere”. Arrivate a casa, rovesciavano l’acqua in una grossa pentola oppure in un’anfora di terracotta. E, se ne serviva ancora, ritornavano al fiume. Nel frattempo, le figlie accendevano il fuoco in mezzo alle tre pietre e su questo treppiedi vi deponevano una pentola con l’acqua. Quando incominciava a bollire, vi mettevano la farina di manioca (che precedentemente avevano pilato nel pestello). Poi bisognava con dei grossi cucchiai in legno, rigirarla (come si fa con la polenta). Era faticoso e le gocce di sudore, anche per il caldo, colavano in quantità. Finalmente, dopo tanto lavoro, la polenta era pronta.

A parte avevano fatto riscaldare l’olio di palma con cui condirla. Veniva rovesciata in un grande vassoio e poi diviso in piccoli recipienti, con a lato l’olio, delle verdure cotte e qualche pezzetto di carne o di pesce. E allora: buon appetito. Ognuno prendeva un po’ di BUGALI (così si chiamava il prodotto finito), ne faceva una piccola pallottolina (tipo gnocchi) e la intingeva nell’olio. Con l’altra mano, prendeva il resto del cibo. E così, in silenzio (non parlare, altrimenti chi ti è vicino, ne approfitta e tu rischi di rimanere senza niente…), si mangiava.

Naturalmente prima gli uomini, poi tutti gli altri. Ultimi i bambini.

Ci ho provato anch’io diverse volte, ma non ero molto entusiasta. Ma mi sforzavo di mangiarlo, perché mi avevano invitato e l’invito non si può rifiutare. Finito tutto, cosa rimaneva da fare? Semplice. Bisognava pulire tutto. Le ragazzine si davano da fare. Se mancava l’acqua, bisognava ridiscendere verso il fiume, portando il bel tutto, perché là c’era il detersivo naturale. Infatti, le pentole erano diventate nere sul fuoco e la sabbia serviva per toglierlo. Ci voleva un po’ d’energia, ma il risultato era veramente splendido. Tornavano come quasi nuove. Si lavava tutto, si riempivano i bidoncini d’acqua e si risaliva la collina per portare il frutto del proprio lavoro. Anche loro, così aiutavano la mamma, che aveva tante cose da fare ed era stanca.

Gli uomini? Loro gustavano il frutto del lavoro degli altri e facevano i commenti. Si chiedevano perché non era possibile portare l’acqua al villaggio per evitare tutta questa fatica. E così un bel giorno, così mi hanno raccontato, sono cominciati i lavori dell’acquedotto.

Tutti hanno collaborato: chi a scavare la trincea per posare il tubo di plastica, chi li ha portati sulle spalle, o in testa o con la bicicletta fino alla sorgente. E chi ha incoraggiato, dando da mangiare.

Finalmente il lavoro ha prodotto i frutti.

Si sono costruite delle fontane in vari luoghi del villaggio. L’acqua era buona e non c’era più bisogno di bollirla e, soprattutto, era vicino a casa. Il fiume rimaneva ancora utile per farsi un bel bagno.



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