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Quello che in questi giorni stiamo osservando, ciò che le immagini della tv trasmettono e ritrasmettono come un’ossessione implacabile, è la figura di un Giappone prostrato e in ginocchio. È come se la ferita aperta dal terremoto, dallo tsunami e dal terrore di una catastrofe nucleare, avesse per un attimo strappato la maschera a questo popolo abituato a mille rinascite e dolori per rivelare e scoprire nella sua impassibilità il volto vero della disperazione, del terrore e dell’impotenza, oltre che dell’incredibile forza e determinazione di questo paese.

Le parole improvvisamente lasciano spazio ad un silenzio irreale, la frenesia viene ipnotizzata nei gesti immobili dell’incredulità e gli occhi gonfi di lacrime non riescono ad alleviare lo sgomento di coloro che in pochi attimi si sono visti privati di ogni cosa: i propri cari, le proprie abitazioni, il proprio lavoro, la speranza di poter un domani risorgere e ricostruire, dato che le radiazioni dell’impianto nucleare di Fukushima probabilmente contamineranno per secoli il territorio circostante.

L’oblio che sembra pervadere la scena, quegli istanti interminabili che precedono l’urlo – che presto si confonderà e disperderà tra le mille macerie delle città – ci presentano la figura di un Giappone costretto ad inchinarsi di fronte alla imprevedibile forza di quella natura che ha sempre ammirato e che inutilmente ha cercato di domare, di un Giappone che ha avuto l’illusione di manipolare con la propria tecnologia il potere invisibile dell’atomo.

Il sogno di una pacifica convivenza con la natura e con la tecnologia lascia spazio al fango, ai detriti, ai volti spauriti che fissano nel vuoto l’immensità della propria disperazione.

Le palestre che ad ogni calamità si trasformano in rifugio per gli sfollati, i mille messaggi che ripetono parole di incoraggiamento, la visione di città trasformate in deserto, gli scheletri delle case e le carcasse di navi abbandonate all’orizzonte, fotografano impietose le immagini di un popolo che cerca di rendersi conto delle insondabili dimensioni della tragedia, della devastazione, della morte, della follia di aver acconsentito a giocare con i letali corpuscoli di uranio e plutonio.

Ad ogni ora che passa, la situazione sembra aggravarsi, tracciando e ridisegnando continuamente i limiti delle possibilità umane, aggiungendo nuove emergenze a quelle che ancora non si è riusciti a risolvere: gente da sfollare, persone da nutrire, bambini da proteggere, scomparsi da cercare, malati, feriti e anziani da curare, radiazioni da contenere, notizie da accertare, morti da seppellire… Un paese che si è visto trasformare in un giorno, in pochi attimi, in una nazione che, se non conosce ancora i contorni e l’entità esatta del disastro che l’ha sfigurata, sa però che non sarà più come prima.

Prima ancora che il balletto delle cifre inizi la sua macabra danza, il riflesso che il Giappone si vede rimandare dallo specchio del tempo, è quello di una nazione che ora deve attingere a tutte le sue forze materiali e spirituali per poter rinascere e, al momento, semplicemente sopravvivere.

Lasciando magari riecheggiare sullo sfondo le parole che l’imperatore Akihito, in una sua breve apparizione in tv, ha comunicato al suo popolo:

Spero, dal profondo del mio cuore, che la gente possa, mano nella mano, trattarsi con compassione e superare questi tempi terribili”.

Il candore dei fiori di ciliegio che si apprestano a sbocciare, quest’anno, non potrà che essere più triste del solito.



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