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MISSIONE E PERSEVERANZA / LA FONDAZIONE DELLA CHIESA DI CORINTO

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Senza perdersi d’animo dinanzi al sostanziale rifiuto incontrato ad Atene, Paolo, mantenendo fede alla strategia legata all’evangelizzazione dei grandi centri urbani, si reca a Corinto, distante tre o quattro giorni di cammino dalla capitale ateniese. Collocata su un istmo che le consente di avere un porto sull’omonimo golfo comunicante con il mar Ionio e uno sul mar Egeo, la città gode di un’importanza strategica da molteplici punti di vista: economico, politico, culturale e religioso. A Corinto è presente anche una sinagoga che costituisce il luogo di partenza dell’evangelizzazione di Paolo (At 18,1-11). 

IL PROVVIDENZIALE INCONTRO CON AQUILA E PRISCILLA

Proprio a Corinto accade un fatto che si rivelerà assai fecondo per l’esperienza missionaria di Paolo: l’incontro con i giudeo-cristiani Aquila e Priscilla, cacciati da Roma in seguito a un editto dell’imperatore Claudio. I due sposi non solo daranno a Paolo la possibilità di lavorare nella loro impresa, ma diventeranno tra i più importanti collaboratori nella missione evangelizzatrice dell’apostolo a Corinto, a Efeso e infine a Roma. Si tratta senza ombra di dubbio di una presenza significativa, che attesta la vivacità del cristianesimo delle origini, quando tutti erano coinvolti, ciascuno secondo i propri carismi e ministeri, nell’edificazione dell’unica Chiesa di Cristo. Va anche ricordato che sia nelle pagine successive degli Atti degli apostoli sia nelle lettere ai Romani e a Timoteo, Priscilla viene significativamente menzionata prima del marito, a indicare una personalità molto influente all’interno delle prime comunità cristiane, particolare di grande importanza se pensiamo al ruolo marginale di gran parte delle donne nel mondo sociale, culturale e religioso di quel tempo.

L’APOSTOLO, UOMO DELLA PAROLA

Il successivo arrivo di Sila e Timoteo a Corinto consente a Paolo di dedicarsi interamente all’annuncio della Parola. La traduzione italiana non rende la forza della formulazione greca: “Quando Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, Paolo cominciò a dedicarsi tutto alla Parola, testimoniando davanti ai giudei che Gesù è il Cristo”. L’espressione “cominciò a dedicarsi tutto” è resa in greco con il verbo synecho, che nel Vangelo indica l’essere tormentato, oppresso da una malattia o da una situazione di angoscia. 

Ovviamente nel caso dell’apostolo l’espressione serve a indicare la profonda passione e il senso di urgenza che anima la predicazione di Paolo. Una predicazione che, come si può dedurre da altri passi degli Atti e delle lettere, prendendo avvio dalle Scritture di Israele, punta a testimoniare che “Gesù è il Messia”, ovvero il compimento delle speranze dell’Israele biblico. 

Anche in questo caso l’annuncio dell’apostolo incontra un forte rifiuto dalla maggioranza della comunità ebraica che lo accusa di bestemmia. Forse noi fatichiamo a comprendere tale reazione, ma non dobbiamo dimenticare che si trattava pur sempre dell’affermazione della messianicità di un uomo condannato al supplizio della croce. 

L’APERTURA AI PAGANI

Paolo reagisce a sua volta, replicando l’atteggiamento assunto precedentemente dinanzi al rifiuto incontrato nella città di Antiochia di Pisidia (cfr. At 13,46-51), mettendo di fatto in pratica l’insegnamento consegnato da Gesù ai discepoli in Lc 9,5: “Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro” (cfr. anche Lc 10,10-11: «Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”»). 

Al gesto di scuotersi le vesti segue una dichiarazione piuttosto severa: “Il vostro sangue ricada sul vostro capo; io sono innocente. D’ora in poi me ne andrò dai pagani” (At 18,6). In tal modo Paolo indica, senza mezzi termini, che coloro che rifiutano consapevolmente il Vangelo si assumono una grave responsabilità dinanzi a Dio. Al tempo stesso, egli si dichiara innocente da tale esito drammatico. Come già ad Antiochia (cfr. At 13,46), Paolo interpreta il rifiuto come una conferma del dovere di rivolgersi alle genti pagane, conformemente alla logica già emersa precedentemente nelle pagine degli Atti e rispondente al misterioso disegno di salvezza voluto da Dio.

RIFIUTO DI MOLTI, MA NON DI TUTTI

In maniera sorprendente, il v. 7 del nostro brano sottolinea che, nonostante il rifiuto di molti, l’annuncio del Vangelo da parte di Paolo ha comunque incontrato l’accoglienza di qualcuno. Vengono anzitutto menzionati due nomi: Tizio Giusto, un timorato di Dio, dunque simpatizzante del giudaismo, e Crispo, capo della sinagoga. Del primo, Tizio Giusto, Luca dice che accolse Paolo nella sua casa, peraltro proprio accanto alla sinagoga dalla quale l’apostolo era stato cacciato. 

Da questo momento in poi le case diventeranno sempre di più il luogo dell’evangelizzazione e dell’esperienza comunitaria cristiana. Di Crispo, capo della sinagoga, si dice che “credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia; e molti dei corinzi, ascoltando Paolo, credevano e si facevano battezzare” (v. 8). 

Certamente il fatto che Crispo sia capo della sinagoga è degno di nota, perché significa che non tutti i membri della comunità giudaica di Corinto hanno rifiutato il Vangelo, come invece poteva sembrare dal versetto precedente. A ciò si deve aggiungere che l’espressione “molti dei corinzi” include “giudei e pagani”, a indicare la varietà delle provenienze che caratterizzeranno la comunità cristiana di Corinto. 

“NON AVER PAURA…”

Non è la prima volta che l’apostolo deve fare i conti con l’ostilità aperta dei giudei, un’ostilità che spesso è sfociata in atti di vera e propria persecuzione nei confronti dei primi cristiani. In questo episodio, però, accade qualcosa di straordinario: «Una notte, in visione, il Signore disse a Paolo: “Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso”» (At 18,9-10). Ad una lettura attenta del libro degli Atti veniamo a sapere che in ben quattro momenti decisivi della missione paolina il Signore Gesù non ha mancato di far sentire la propria presenza rassicurante: sulla via di Damasco (At 9,3); all’ingresso in Europa (At 16,9), in occasione dell’arresto dell’apostolo (At 23,11) e sulla nave poco prima del naufragio (At 27,23-24). 

Le parole che Gesù rivolge all’apostolo richiamano quelle che Dio, nell’Antico Testamento, rivolge ai suoi eletti per incoraggiarli dinanzi alle inevitabili difficoltà della missione, promettendo vicinanza e protezione. In modo particolare, l’ingiunzione di continuare a parlare senza timore è motivata dalla presenza protettrice di Cristo accanto al testimone, a cui viene aggiunta una speciale promessa: “Nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso”.

La parola greca utilizzata per indicare il popolo è laos, che nell’Antico Testamento indica il popolo d’Israele ben disposto ad accogliere la parola di Dio. A ben vedere si tratta di un’affermazione curiosa, perché in realtà Paolo, almeno fino a quel momento, ha battezzato pochissime persone. Eppure, qui viene affermato implicitamente che l’attività del missionario consiste nel far sorgere un popolo che “già” appartiene al Signore. Si tratta di una constatazione importante, che ricorda ai missionari di ogni luogo e di ogni tempo che, per quanto la loro collaborazione sia preziosa, le redini della Chiesa sono saldamente tenute nelle mani di Dio, anche quando l’evidenza sembra suggerire il contrario. Per questo motivo i credenti non devono perdersi d’animo, cedendo alla tentazione della frustrazione e del pessimismo, pericolosamente in agguato nel tempo della prova.



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