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IL POSTMODERNO FA BENE ALLA MISSIONE

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Questo numero estivo di Missione Oggi raccoglie gli atti del convegno annuale della rivista: Dire il Vangelo oggi nel tempo dell’incertezza (Brescia 10 maggio 2014). Sfogliando queste pagine, i nostri amici e lettori potranno gustare una nuova riflessione sulla missione in dialogo con la cultura postmoderna, grazie anzitutto al contributo del teologo e missionario nordamericano John C. Sivalon.

Egli, invece di lamentare le derive relativiste e nichiliste della postmodernità, ne coglie le intuizioni e prospettive positive, anche in ordine alla teologia e prassi missionaria. Il postmoderno, ribadisce Sivalon, non svuota di significato la missione cristiana, anzi, d’accordo con la radicale svolta nella comprensione di Dio delle categorie di “relazionalità” e “alterità”, offre nuova vitalità alla stessa idea di missione di Dio (missio Dei) fatta propria dal Concilio Vaticano II.

Insomma, per Sivalon, il postmoderno fa bene alla missione. Questa chiave di lettura “postmoderna” della missione vale anche per discernere più profeticamente la crisi degli Istituti missionari, segnati, soprattutto in Europa e America del Nord, dal “dono della morte”: invecchiamento del personale, drastica diminuzione delle vocazioni, chiusura di prestigiose iniziative e strutture ecc.

È solo accettando la morte come “dono”, sostiene Sivalon, che mostriamo di credere davvero che il nostro futuro missionario sta nelle mani di Dio e non nelle nostre.

Fondati nel tempo della moderna “certezza”, in cui la missione era “propaganda” e “proselitismo”, oggi gli Istituti missionari devono fare i conti con il “dono dell’incertezza”, che considera la missione come un’attività di ricerca e di scoperta dell’altro.

Fondati nel tempo della “identità”, della verità assoluta, oggi gli Istituti missionari sono chiamati a valorizzare l’alterità, il pluralismo e il dialogo, quali parti integranti della missione. Fondati nel tempo in cui vigevano le nozioni coloniali di espansione, crescita della cristianità, oggi gli Istituti missionari sono obbligati a reinventare la missione, sperimentando la fragilità e la vulnerabilità dell’ospitalità kenotica di Cristo. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

Anche il contributo del filosofo laico Salvatore Natoli sottolinea che il postmoderno, soprattutto quello marcato dalla secolarizzazione, può essere un terreno fertile per il cristianesimo. C’è, infatti, una verità profonda che può rendere il Vangelo ancora desiderabile oggi: il Cristo-caritas, che sta in compagnia degli uomini e si fa prossimo.

È anche l’insegnamento di papa Francesco, che, con i suoi gesti e parole, sta operando una rivoluzione teologica, privilegiando un’altra logica sacramentale, che non premia i perfetti ma alimenta i deboli. Basti pensare al discorso sull’eucaristia: “L’eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (EG 47).

Quello di papa Bergoglio, secondo Natoli, è uno stile di cristianesimo che trova accoglienza non solo perché mediaticamente indovinato, ma soprattutto perché risponde ad un effettivo bisogno in una società ridotta ormai ad “aggregati di solitudine”, senza legami di corresponsabilità.

Il Cristo che scende al posto degli ultimi è ancora invitante, persuasivo, benché difficilmente imitabile, in quanto la caritas Christi, se è tale, sarà sempre crocifissa.

Sebbene non esaurisca tutti gli aspetti della fede canonica, il Cristo dell’incondizionata dedizione per gli altri è senz’altro uno spiraglio per dire Dio oggi nella postmodernità.



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