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DON MILANI ANCORA INSEGNA

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Cinquant’anni fa moriva, come un profeta lapidato e misconosciuto, don Lorenzo Milani. Aveva scandalizzato il sistema ecclesiastico, sociale e politico, del suo tempo non con discorsi dottrinali, ma opponendogli il suo messaggio educativo, la sua esperienza di uomo-prete-maestro. Alla radice del suo messaggio educativo c’era la Parola, con la P maiuscola, il Vangelo nella sua essenzialità – l’amore di Dio e del prossimo insieme –, non una corrente pedagogica e nemmeno un’ideologia. Il prete-maestro aveva fatto dell’educazione, della scuola, il suo campo di battaglia pastorale, “come un ottavo sacramento”. “La scuola – scriveva in Esperienze pastorali – mi è sacra come un ottavo sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo”. Anche il motto “I care”, scritto sulla sua scuola, aveva un connotato evangelico, il mistero dell’incarnazione di Dio, la passione divina per il genere umano, fino alla morte: “Non si può amare tutti gli uomini… Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio”.

Il prossimo da amare non era per don Milani quello “lontano” dei missionari che partivano per la Cina, per l’Africa, nemmeno il proletariato urbano, ma coloro che gli stavano davanti, un gruppetto di ragazzi “primitivi”, come quelli di Barbiana, attraverso i quali egli allargava il suo orizzonte alle grandi cause dell’umanità. A cinquant’anni di distanza, la proposta pedagogica e pastorale di don Milani mantiene la sua forza profetica, non solo per la società e la Chiesa italiana, da cui è stato escluso, vilipeso e portato dinanzi ai tribunali, ma anche per i missionari e le missionarie ad gentes che cercano in Italia e nel mondo un nuovo modo di annunciare il Vangelo. Mi sembrano tre le linee guida della sua rivoluzione pedagogica ancora capaci di provocare la missione oggi: a) il Vangelo come vita vissuta; b) la parola ai poveri; c) l’evangelizzazione come liberazione.

La prima riguarda la fedeltà al Vangelo, che si misura, secondo don Milani, in rapporto a scelte storiche compiute, non a formule dottrinali, soprattutto quando i linguaggi antichi del cristianesimo sono diventati estranei e pietrificati: “È meglio – dichiarava in Esperienze pastorali – ridurre il Vangelo a vita vissuta e la vita è sempre un linguaggio che vale”. La seconda coincide con quella che in America latina sarà “l’opzione preferenziale per i poveri”, in nome del Vangelo, non di una classe e nemmeno di un’ideologia: “Date la parola ai poveri”, ripeteva don Milani, per strapparli dallo stato di passività, qualunque sia l’istituzione in cui si trovino: la Chiesa, la scuola, il sindacato ecc. La rivoluzione, per il priore di Barbiana, si fa con la parola, non una parola qualsiasi, come riempitivo di tempo, ma capace di sovvertire le strutture disumane. E qui il pensiero va a un tentativo analogo in Brasile, quello di Paulo Freire con la sua Pedagogia degli oppressi. Infine, l’evangelizzazione come liberazione. Qui sta, secondo don Milani, il nodo dell’incontro tra la fede cristiana e il mondo moderno, per cui educare è già evangelizzare. Don Milani è vissuto e morto per questa idea.

A cinquant’anni di distanza don Milani ancora insegna. “Ho la superba convinzione – scriveva il 14 luglio 1952 – che le cariche di esplosivo che ho ammucchiato negli anni di San Donato, non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquanta anni sotto il sedere dei miei vincitori”.



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