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A.A.A. VENDESI ARMAMENTI ANCHE USATI

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Dagli armamenti pesanti alle armi comuni, dalle nuove tecnologie militari alle navi dismesse: l’Italia punta sempre di più sulle esportazioni di armi.

Approfittare di ogni occasione per promuovere l’esportazione di sistemi militari: nuovi o vecchi non importa. Ciò che conta è non sollevare troppa attenzione. E, soprattutto, non offrire informazioni utili per un capillare controllo da parte del parlamento e dell’opinione pubblica.

È la strategia la strategia innovativa del governo italiano per vendere armamenti: “Marketing low profile”, ovvero commercializzare sistemi bellici mantenendo un basso profilo.

DECOLLANO GLI AFFARI

Nel 2015 il governo Renzi ha triplicato le autorizzazioni all’esportazione materiali militari portandole al record dal dopoguerra di 8,2 miliardi di euro. L’incremento e le cifre sono impressionanti e ci si sarebbe aspettati se non un motto di esultanza almeno un certo orgoglio. Invece, la Presidenza del Consiglio nel presentare i dati nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” inviata alle Camere lo scorso 18 aprile, impiega una sola frase dal tono laconico: “Si è pertanto consolidata la ripresa del settore Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del 2013” (p. 6).

Segue un piccola aggiunta: “In linea con l’andamento crescente globale del settore della difesa nel 2015, anche i dati inerenti ai programmi intergovernativi di cooperazione fanno registrare un incremento: 3,2 miliardi di euro contro i 338 milioni di euro del 2014”. In altre parole, sebbene questi contratti siano quasi decuplicati, ci stiamo solo adeguando al trend internazionale.

Eppure oltre a questi programmi, che riguardano soprattutto la produzione di sistemi militari per i Paesi dell’Unione europea e della Nato, sono in forte aumento anche le autorizzazioni all’esportazione di materiali militari: nel 2015 sono state di quasi 4,7 miliardi di euro, più che raddoppiate rispetto ai poco più di 2,3 miliardi di euro del 2014. Ma anche su questo nessun commento da parte del governo.

AUMENTANO I PAESI A RISCHIO

Proprio queste autorizzazioni devono, invece, essere valutate attentamente. La figura delle zone geopolitiche di destinazione è infatti alquanto preoccupante. Le autorizzazioni verso i paesi dell’Ue sono praticamente alla pari di quelle dell’Asia (entrambi poco più di 1.149 milioni di euro pari al 23,4%), seguite dai paesi del Medio Oriente e Nord Africa (931 milioni). All’America settentrionale (345 milioni) sono stati destinati armamenti per valori ampiamente inferiori sia a quelli degli altri paesi europei non appartenenti all’Ue (554 milioni), sia verso i paesi dell’Oceania (483 milioni). Verso l’Africa sub-sahariana sono stati diretti sistemi militari per quasi 153 milioni di euro che superano i 146 milioni di euro di autorizzazioni verso l’America latina.

In altre parole, quasi la metà degli armamenti italiani sono stati destinati nelle zone di maggior tensione del mondo. Tra i principali acquirenti troviamo diversi paesi che da mesi stanno alimentando il conflitto in Yemen (più di 8mila morti di cui la metà tra la popolazione civile) come l’Arabia Saudita (257 milioni di euro tra caccia Eurofighter, bombe, missili e sistemi per la direzione del tiro), gli Emirati Arabi Uniti (304 milioni di euro tra armi automatiche, veicoli, velivoli e navi da guerra e relativo munizionamento), il Qatar (35 milioni per veicoli terrestri, apparecchiature elettroniche e munizioni), ma anche il Bahrain (54 milioni di euro che comprendono “armi leggere”), dove è in corso una tremenda repressione interna, e l’Oman (152 milioni di euro) che, pur non facendo parte della coalizione che è intervenuta militarmente in Yemen, non brilla certo per il rispetto dei diritti umani.

In Asia spiccano le autorizzazioni verso Singapore (381 milioni) e Taiwan (258 milioni), ma non vanno dimenticate quelle verso il Pakistan (120 milioni) e l’India (85 milioni) con la quale si è continuato a fare affari militari nonostante la vicenda dei due marò.

Per non parlare dell’Africa subsahariana: si tratta di quasi 153 milioni di euro soprattutto per le forniture allo Zambia di due “velivoli” del valore di oltre 98 milioni di euro e al Kenya (25 milioni).

Autorizzazioni ad alto rischio: occorrerebbe valutare se siano state rilasciate – come chiederebbe la legge n. 185 del 1990 che regola questa materia – «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». O se non rispondano invece a logiche di tipo economico, commerciale ed industriale. Un dato è certo: nel 2015, così come l’anno precedente, l’Italia non ha emesso dinieghi all’esportazione di sistemi militari. Nel 2014 la Germania ne ha espressi 165, il Regno Unito 66 e la Francia 14.

AZIONARIATO CRITICO VERSO FINMECCANICA

Tra le aziende più attive nell’export militare italiano figurano infatti Alenia Aermacchi, Agusta Westland, Ge Avio, Selex ES, Elettronica, Oto Melara, Intermarine, Piaggio Aero Industries. il Ministero degli Esteri rileva con una certa enfasi che «la maggior parte di queste aziende sono proprietà o in varia misura partecipate dal gruppo Finmeccanica» (p. 21). Come noto, il gruppo è controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che detiene il 30,2% delle azioni. Il governo si trova quindi nella situazione, non poco ambigua, di cercare di promuovere le vendite del principale gruppo industriale militare italiano e, allo stesso tempo, di doverne autorizzare – e quindi anche limitarne – le esportazioni. I dati sopra riportati mostrano a quale delle due attività il governo Renzi si sia maggiormente applicato.

Finmeccanica – che lo scorso aprile ha assunto il nome di Leonardo – ha da poco reso noto il “Bilancio di sostenibilità e innovazione” nel quale riporta che il 65% dei suoi ricavi proviene dal mercato militare. Il gruppo, capitanato dell’amministratore delegato Mauro Moretti, si sta infatti sempre più indirizzando verso la produzione militare: le recenti dismissioni di Ansaldo Breda e Ansaldo Sts e di altri settori considerati “non strategici” lo dimostrano chiaramente.

L’azienda continua ad essere poco trasparente soprattutto sui paesi di destinazione finale dei suoi sistemi militari. Il “Bilancio di sostenibilità” manca infatti di un dato fondamentale: l’elenco dettagliato, per quantità e valore, degli ordinativi e dei materiali militari consegnati nei vari paesi dei mondo. Lo hanno fatto notare i rappresentanti della Fondazione Culturale Responsabilità Etica (FCRE) che sono intervenuti lo scorso aprile all’assemblea degli azionisti di Finmeccanica. L’attività di “azionariato critico”, resa possibile grazie all’acquisto di tre sole azioni, ha permesso alla Fondazione culturale fondata nel 2003 da Banca Etica di sollevare anche altre spinose questioni alle quali la dirigenza di Finmeccanica ha dovuto rispondere.

CROLLA LA TRASPARENZA

La già menzionata Relazione sulle esportazioni di armamenti che annualmente viene inviata alle Camere è stata resa dal governo Renzi un documento pressoché inutile per conoscere in dettaglio le operazioni autorizzate e svolte. Tranne i valori monetari complessivi e i generici materiali militari (velivoli, navi, veicoli terrestri, ecc.) suddivisi per Paese, la Relazione non permette più nemmeno di ricostruire, incrociando le numerose tabelle dei ministeri, i destinatari finali delle singole operazioni autorizzate ed effettuate. Non è questione da poco perché solo con dati precisi e completi il Parlamento può esercitare il ruolo di controllo che gli compete.

Tutto questo sta minando alla radice il controllo parlamentare e della società civile. Quella società civile di cui fa parte anche Missione Oggi che è stata tra i promotori della legge n. 185 del 1990 dopo gli scandali delle esportazioni di sistemi militari degli anni Ottanta, coperte in gran parte dal segreto militare. A nulla, purtroppo, sono finora servite le reiterate richieste di maggior trasparenza avanzate dalla Rete italiana per il disarmo al Ministero degli Esteri.

“ARMI COMUNI” ANCHE ALL’EGITTO

L’Italia ha mantenuto anche nel 2015 il primato di principale esportatore mondiale di “armi comuni”, cioè quelle non costruite per impiego militare. Un primato che detiene da più di un decennio superando gli Stati Uniti e la Germania: “le esportazioni italiane ricoprono il 15,9% di tutto il commercio internazionale di armi comuni” – segnala un recente rapporto pubblicato dall’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (OPAL) di Brescia.

Dopo aver raggiunto nel 2014 un record storico di quasi 405 milioni di euro, le esportazioni dall’Italia di “armi comuni” hanno segnato nel 2015 una leggera contrazione (-4,8%) attestandosi a 385 milioni di euro: ma va rilevata soprattutto la tendenziale crescita dell’ultimo quadriennio che presenta valori sempre superiori ai 350 milioni di euro. La provincia di Brescia, storica zona di produzione di armi, risulta la principale area di esportazione di “armi comuni” seguita dalla provincia di Urbino dove ha sede la Benelli, azienda del gruppo Beretta.

E proprio dalle aziende delle province di Brescia e di Urbino sono state esportate nel biennio 2014-15 più di 30mila pistole e 3.600 fucili per le forze di pubblica sicurezza dell’Egitto: armi esportate come “armi comuni” la cui autorizzazione è stata rilasciata nonostante la decisione del Consiglio dell’Unione europea – assunta nell’agosto del 2013 e riconfermata nel febbraio del 2014 – di sospendere le licenze di esportazione all’Egitto “di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna”.

L’Italia, segnala OPAL, risulta l’unico paese dell’Unione europea ad aver fornito nel biennio 2014-15 sia “pistole e revolver” che “fucili e carabine” alle forze di polizia e di sicurezza del regime di Al Sisi. Esportazioni che sono continuate anche nel 2016 dopo la tragica uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni e nonostante Amnesty International abbia ripetutamente chiesto al governo italiano di sospendere l’invio di armi in considerazione della brutale repressione in atto nel paese: sono più di 41mila le persone arrestate in modo arbitrario e centinaia gli scomparsi di cui non si sa più nulla.

L’Egitto non è l’unico paese alle cui forze di polizia il governo Renzi ha inviato “armi comuni”: vi sono anche i “regimi autoritari” (la definizione è del “Democracy Index” dell’Economist) dell’Algeria (28.500 pistole esportate dalla provincia di Brescia nel 2014), dell’Oman (28.000 pistole esportate sempre da Brescia nel biennio 2014-15) ed inoltre il Messico (oltre 13.500 pistole esportate da Brescia nel biennio 2014-15), paese nel quale persistono le gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altri maltrattamenti, le sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali.

LA VETRINA DELL’USATO

Ma c’è anche “l’usato sicuro” degli armamenti. È stato presentato alla Spezia all’esposizione “SeaFuture 2016” (24-27 maggio). Il motto della manifestazione sarebbe “See innovation”, ma la realtà è diversa: l’obbiettivo principale è stato quello di trovare acquirenti per le navi della Marina Militare in via di dismissione. Navi che – come è stato spiegato nella conferenza stampa – “rappresentano un buon affare per le marine estere più piccole”.

Così alla Spezia sono state invitate le rappresentanze ufficiali delle Marine Militari di 26 paesi tra cui Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Nigeria, Pakistan ed anche il Ghana. SeaFuture era nata nel 2009 come “la prima fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare”: dalla scorsa edizione si è trasferita all’Arsenale Militare spezzino e quest’anno la Marina Militare ne è stata il principale promotore.

Manca solo l’annuncio sui quotidiani internazionali: A.A.A. Vendesi Armamenti, Anche Usati.



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