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Nella notte tra domenica 8 e lunedì 9 gennaio, dopo una lunga malattia, è venuto a mancare Christian Albini, insegnante, teologo, nonché collaboratore di Missione Oggi.

La redazione si unisce al lutto della famiglia e lo ricorda attraverso l’ultimo suo articolo pubblicato nella rivista, nel maggio del 2015.


LA MISSIONE NEL CONTINENTE DIGITALE

  • di Christian Albini

Le nuove tecnologie della comunicazione informatica (ICT: Information Communication Technologies) costituiscono non solo uno strumento, ma un ambito e una frontiera della missione. Il nodo è il rapporto tra “reale” e “virtuale”, in cui quest’ultimo non è alternativo o sostitutivo del secondo, ma ne è il prolungamento.

MISSIONE E “CYBERTEOLOGIA”

Per capire come l’orizzonte dell’ICT favorisce una comprensione della missione più articolata, bisogna ora fare riferimento alla riflessione sulla cosiddetta cyberteologia, portata avanti soprattutto dal gesuita Antonio Spadaro. Se le esperienze specificamente religiose non possono essere intese come dipendenti dalle tecniche di comunicazione, è però evidente che le tecnologie telematiche stanno cominciando a influire anche sul modo di pensare la fede cristiana e, soprattutto, ad avere un influsso, ora virtuoso ora problematico, sulle sue categorie di comprensione. Perciò, come la cultura digitale inciderà sul modo di fare un discorso su Dio e sulla fede? La riflessione fino a questo momento è stata soprattutto attenta alla religione in Rete in termini generali o anche alle «cybereligioni», al «tecnognosticismo» e al «tecnopaganesimo». È stata dunque più attenta al «religioso» che al «teologico» con il conseguente rischio di appiattire e omologare le identità e le teologie specifiche, quando esse non vengano poi ridotte da un puro approccio sociologico livellante.

Certamente il fatto che siano nate alcune forme di religiosità virtuale in Rete è l’epifenomeno di un mutamento complesso e ampio nella comprensione del sacro. Tuttavia non è sufficiente fermarsi qui. In realtà la riflessione cyberteologica è stata avviata, ma il termine è usato poco, e spesso il suo senso non è chiaro.

La domanda invece è chiara: se i media elettronici e le tecnologie digitali modificano il modo di comunicare e persino quello di pensare, quale impatto avranno sul modo di fare teologia?

I primi timidi e rapidi tentativi di giungere a una definizione hanno in realtà cercato di chiarire i termini della questione. Carlo Formenti nel suo Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di internet (Milano, Raffaello Cortina, 2000) dedica un capitolo alla cyberteologia intendendola come lo studio delle connotazioni teologiche della tecnoscienza, una «teologia della tecnologia». Il fascicolo monografico della rivista Concilium del 2005 dal titolo Cyber-spazio, cyber-etica, cyber-teologia invece offre un contributo interessante che implicitamente sembra definire la cyberteologia come lo studio della spiritualità che si esprime in e attraverso internet e delle odierne rappresentazioni e immaginazioni del «sacro». Si tratterebbe, dunque, della riflessione sul cambiamento nel rapporto con Dio e con la trascendenza.

UN NUOVO MODO DI RIFLETTERE SULLA FEDE

Forse è giunto il momento di considerare - come suggerisce Spadaro - di considerare la cyberteologia come l’intelligenza della fede al tempo della Rete, cioè la riflessione sulla pensabilità della fede alla luce della logica della Rete. Ci riferiamo alla riflessione che nasce dalla domanda sul modo nel quale la logica della Rete, con le sue potenti metafore che lavorano sull’immaginario, oltre che sull’intelligenza, possa modellare l’ascolto e la lettura della Bibbia, il modo di comprendere la Chiesa e la comunione ecclesiale, la Rivelazione, la liturgia, i sacramenti: i temi classici della teologia sistematica. La riflessione è quanto mai importante, perché risulta facile constatare come sempre di più internet contribuisce a costruire l’identità religiosa delle persone. E se questo è vero in generale, lo sarà sempre di più per i cosiddetti «nativi digitali».

La riflessione cyberteologica è sempre una conoscenza riflessa a partire dall’esperienza di fede. La cyberteologia è dunque non riflessione sociologica sulla religiosità in internet, ma frutto della fede che sprigiona da se stessa un impulso conoscitivo in un tempo in cui la logica della Rete segna il modo di pensare, conoscere, comunicare, vivere.

Forse è bene precisare, infine, che non sarà sufficiente considerare la riflessione cyberteologica come uno dei molti casi di «teologia contestuale», che, cioè, tiene presente in maniera specifica il contesto umano in cui essa si esprime. Al momento è certamente così. Tuttavia il contesto della Rete tende a non essere (e lo sarà sempre meno) isolabile come un contesto specifico e determinato, ma ad essere (e lo sarà sempre di più) integrato nel flusso della nostra esistenza ordinaria.

La mia convinzione è che, in riferimento alla missione, la cyberteologia diviene utile nella chiave della riflessione di fede sulle nuove forme di relazione che le ICT consentono. In altre parole, queste tecnologie ci offrono la possibilità di un’estensione delle nostre capacità di comunicazione e di relazione, le quali assumono nuove forme e che possono avere un significato cristiano e una valenza missionaria molto preziosi. Così come noi usiamo usualmente il corpo e i sensi per relazionarci con gli altri, le tecnologie tradizionali della comunicazione (telefono, radio, televisione, ecc.) ci hanno offerto un’estensione della portata della vista e dell’udito, contribuendo a far diminuire la centralità che la parola scritta aveva assunto nell’epoca moderna nella produzione e trasmissione della cultura.

LE PROSPETTIVE PASTORALI

Un buon punto di partenza per riflettere sulle prospettive pastorali aperte dall’ICT è il messaggio di Benedetto XVI per la giornata delle comunicazioni sociali del 24 gennaio 2013, uno degli ultimi documenti del suo magistero pontificio, che rivela il contributo di una mano competente. Mi limito ad aggiungere due considerazioni personali. In primo luogo, dal punto di vista ecclesiologico, gli strumenti che la rete offre consentono una presa di parola nella chiesa da parte di chi non appartiene alle gerarchie, non ha incarichi di rilievo e non appartiene a movimenti o associazioni. Un tempo sarebbe stato impensabile.

Ne deriva anche la libertà di esercitare franchezza nei dibattiti e nei confronti di certe posizioni ufficiali discutibili, purché avvenga in nome dell’Evangelo, non di ostinazioni ideologiche, e in forme nonviolente. La rete consente poi di diffondere e amplificare voci significative, le quali rimarrebbero altrimenti isolate, e fa nascere contatti dentro e fuori la chiesa che generano frutti, se sono l’inizio di relazioni che continuano fuori di essa.

Quella che sperimentiamo io e altri è una modalità comunicativa “orizzontale”, rispetto a quella tradizionalmente “verticale”, che rinnova il volto della chiesa e consente di praticare l’ascolto e l’incontro.

Il limite che rilevo, e su cui sto riflettendo, è che la maggior parte delle energie finiscono ancora per concentrarsi sulle questioni ad intra, con argomenti e linguaggi comprensibili solo agli addetti ai lavori. Lo ritengo il segno di una chiesa ancora troppo presa da se stessa e dalle sue divisioni e non abbastanza capace di partecipare alla “conversazione del mondo” senza logiche apologetiche o di parte (che fanno rumore, ma non raccolgono niente), portando la carica umanizzante del lievito evangelico.

In secondo luogo, nel contesto attuale di contrazione delle congregazioni missionarie e del loro impegno, la “nuova frontiera” della Rete offre un’occasione di ripensare e rimodulare l’impegno missionario ad gentes. Innanzi tutto, nella direzione di una maggiore interazione e condivisione tra “chiese sorelle”, mentre spesso l’unico punto di contatto era costituito dalla persona dei missionari stessi, mediante visite e corrispondenze. Questa diventa una forma di concretizzazione della universalità della Chiesa.

Un ulteriore aspetto si ricollega alla perdita di centralità ed esemplarità della figura del missionario come modo di vivere la vocazione apostolica come si era strutturata tra la metà del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo. Non è solo un fatto di numeri; c’è stato un cambiamento di immaginario e di mentalità ecclesiale e anche collettivo. Una chance che, al riguardo, l’ICT offre alle realtà missionaria è quella di “giocarsi” come “agente interculturale”.

Nel contesto della globalizzazione coesistono due spinte opposte: quella alla chiusura e al particolarismo, alimentata dagli atti terroristici, e quella all’incontro tra culture.

C’è una domanda di conoscenza e di esperienza di culture altre – che si esprime p.es. nei viaggi, nel cinema e nelle arti, nella cucina… - a cui il movimento missionario può offrire una propria risposta presentandosi come “ponte” che consente un incontro più autentico di quello all’insegna del consumismo. Un impegno di questo genere può essere visto come un lavoro di aratura e semina per preparare il terreno a una nuova sensibilità missionaria.



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