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IL CIAD TRA COLPI DI STATO E… QUALCHE SPERANZA

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Il presidente Idriss Deby, 68 anni, figlio di pastori Zaghawas, dell’Est del Ciad, è deceduto il 20 aprile scorso. Secondo il Cmt (Consiglio militare di transizione), formato da quindici generali, è caduto in combattimento contro i ribelli del Fact (Fronte per l’alternanza e la concordia nel Ciad). Deby era giunto al potere con un colpo di Stato il 1° dicembre 1990, spodestando Hissène Habré, che aveva aiutato a prendere il potere nel 1982 contro Goukouini Oueddei. Quando, però, Habré, di etnia Gorane, inizia a perseguitare gli Zaghawas, etnia di Deby, questi fugge in Sudan e crea l’Mps (Movimento patriottico di salvezza), un movimento ribelle che diventerà il suo partito. Da notare che anche Deby, una volta al potere, perseguiterà i Gorane, trattandoli da potenziali nemici. Tra i caduti di questi pogrom tribali ci sono molti membri della famiglia di Mahamat Mahdi Ali, leader del Fact, che fa parte di un insieme piuttosto ambiguo di gruppi ribelli che operano tra il Sud della Libia e il Nord del Ciad, zona di difficile controllo da parte del governo. Si tratta di gruppi mercenari che combattono da una parte e dall’altra nel conflitto libico. Il Fact, per esempio, aveva siglato un accordo con Haftar, l’uomo forte dell’Est libico. L’impressionante dispositivo militare, dispiegato in questo ultimo attacco, in cui sarebbe deceduto Deby, ha stupito anche le forze governative, evidenziando lo scandalo della presenza di enormi quantitativi di armi circolanti in Libia. Alcuni analisti sono convinti che il Fact abbia usufruito anche dell’aiuto di istruttori russi, che sostengono Haftar. Dal canto suo, Mahamat Mahdi Ali ha sempre sostenuto che l’opzione militare resta l’unica chance dell’opposizione, per la mancanza di alternanza politica. 

La storia del Ciad sembra essere un’interminabile lotta per il potere, frutto di una cultura della ribellione tra etnie guerriere che non hanno a cuore il bene del paese. In trent’anni di potere, Déby non è riuscito a riscattare il paese dalla povertà, malgrado la scoperta del petrolio e la sua estrazione dal 2003. Gli indici di sviluppo umano lo danno, infatti, al 187° posto su 189 paesi. Il grado di corruzione è stato denunciato dai famosi Panama Papers, secondo i quali Déby avrebbe sottratto alle casse dello Stato miliardi di dollari, distribuendo la ricchezza nella cerchia ristretta dei familiari e amici. Rieletto per la sesta volta, Déby aveva modificato la Costituzione in suo favore e reso il regime più autoritario. Nel 2008 l’oppositore politico Ibni Oumar Mahamat Saleh scompare nel nulla e nessuna inchiesta è aperta sull’evento. Anche nell’ultima campagna elettorale, del 2021, il clima è stato avvelenato dall’uccisione di alcuni membri della famiglia dell’oppositore Yaya Dillo Djerou, candidato alla presidenza. Baluardo della lotta anti jihadista nel Sahel, primo alleato della Francia in seno al G5 (Organizzazione militare comprendente Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad), la cui sede si trova a N’Dajamena, Deby godeva del massimo sostegno della Francia, che lo ha salvato più volte in extremis, su sua richiesta, dalle ribellioni provenienti dal Nord. L’ultima volta nel 2019. Ma questa volta, N’Djamena non ha fatto alcuna richiesta in tal senso. 

La versione ufficiale sulla morte di Deby non convince tutti, soprattutto chi ha condiviso una parte del suo iter politico. È il caso di Faustin Facho Balaam, ex ministro e rifugiato politico intervistato dalla Deutsche Welle, il quale è più dell’idea che si tratti di un regolamento di conti interno al gruppo di comando. L’oppositore politico Théophile Bongoro pensa che la precipitazione con la quale tutto si è svolto – morte-sepoltura-messa a punto di un Consiglio militare – nasconda qualcosa di diverso dalla morte in combattimento. I difensori dei diritti umani denunciano la scomparsa di un dirigente autocrate, che ha regnato con una mano di ferro e che ha lasciato un paese socialmente allo sbando. Dal canto suo, la società civile critica la transizione con al comando il figlio di Deby, Mahamat, considerandola un golpe militare, che trasforma la Repubblica in monarchia. La nomina del figlio è stata accompagnata dallo scioglimento del Parlamento e del governo, oltre che dalla sospensione della Costituzione, mentre, secondo la stessa Costituzione avrebbe dovuto essere il presidente del Parlamento a guidare la transizione. Questo modus operandi svela il volto di un regime militare che da sempre ha sequestrato il potere. Mahamat dovrà condurre una transizione di 18 mesi prima delle libere elezioni democratiche. Anche l’opposizione politica è contraria a una transizione militare e, con tutte le organizzazioni della società civile, ha firmato una dichiarazione per una transizione civile e costituzionale. Anche la Francia e i capi di Stato del G5-Sahel e l’Ua hanno chiesto una transizione inclusiva che tenga presenti tutte le componenti della società ciadiana. Gli Stati Uniti hanno ribadito il loro sostegno seguendo però i dettami costituzionali. 

Si apre dunque una settimana cruciale per il paese. Il Cmt è stretto tra le forze politiche di opposizione e della società civile, che hanno indetto una manifestazione per martedì 27 aprile per chiederne lo scioglimento e iniziare un cammino inclusivo; e i ribelli del Fact che hanno proclamato un cessate il fuoco per il lutto, minacciano di entrare nella capitale se il dialogo fosse loro negato. Questi però sarebbero disposti a prolungare il cessate il fuoco se iniziasse un negoziato politico con tutte le forze del paese. A queste richieste di dialogo i militari al potere hanno risposto che, essendo in guerra, non ci può essere alcun negoziato. Attualmente il paese vive, dunque, nell’incertezza nell’attesa che il figlio di Déby si esprima pubblicamente. 

L’episcopato ciadiano, due giorni dopo la morte, ha pubblicato una lettera nella quale, oltre alle condoglianze alla famiglia e al paese, invita i belligeranti a cessare il fuoco. Inoltre, chiede ai fedeli di ogni religione di pregare per la nazione. La Chiesa ciadiana si dice pronta a dare il suo contributo per un dialogo inclusivo. Di questa Chiesa fanno parte anche 16 missionari saveriani presenti in tre diocesi, con una comunità anche alla periferia della capitale N’Djamena, dove la tensione è maggiore nell’attesa di una soluzione che pacifichi gli animi di tutti. 

Notizia dell’ultima ora: il Cmt ha nominato Albert Pahimi Padacké primo ministro del governo di transizione. Si tratta di uomo politico di grande livello, originario del Sud del paese; è stato l’ultimo primo ministro di Déby prima che tale incarico fosse soppresso nel 2018. è stato anche candidato all’ultima elezione presidenziale. Molti osservatori pensano che, con la sua nomina, la giunta al potere stia dando prova di realismo. Ma l’opposizione e la società civile rifiutano questo modus operandi domandando inclusione e partecipazione nelle scelte.



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