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BRESCIA PEGGIO DI WUHAN? RIFLESSIONI SULL’ATTUALE PANDEMIA DA COVID-19

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Da giorni sto come tutti cercando di comprendere qualcosa di quanto sta succedendo, divorando le informazioni che diffondono gli esperti che mi sembrano più affidabili e competenti.

Pare di intuire che stiamo vivendo una pandemia di proporzioni imponenti, paragonabili – e qui scatta il tic dello storico – a quelle del secolo scorso, in particolare la spagnola del 1918  e l’asiatica del 1957.[1]

La spagnola dei miei antenati

Della spagnola ho i ricordi della mia famiglia materna, di nonno Pinelo e nonna Marina, che vivevano in un piccolo borgo dell’Alto Mantovano ai piedi delle colline moreniche del Garda:

Alla fame, proprio in quell’ultimo anno di guerra, si aggiunse un’altra terribile piaga, la febbre  che dilagò in tutta Europa. Nonna Marina, ancora sconvolta dalla recente inaccettabile morte dell’ultimo figlio, Luigi, a dieci giorni dalla nascita, non dormiva la notte pensando alle sue bambine. Una nipotina, figlia di sua cognata Rosina, si era già ammalata. Fu una pena vederla bruciare di febbre, con i grandi occhi lucidi, impauriti, che guardavano intorno in cerca di soccorso. Non si sapeva che cosa fare se non impacchi di acqua fredda sulla fronte, non c’erano medicine che potessero contrastare quella febbre cattiva. Ben presto la tosse, secca e tignosa, cominciò a squassarle l’esile petto, insistente, senza tregua, anche la notte. La mamma Rosina se la portò nel lettone per starle vicino, le sembrava così di proteggerla, di darle forza per superare la crisi. Ma le cure amorevoli non bastarono ed il male venuto da lontano, chiamato chissà perché spagnola, se la portò via. Si può capire come nonna Marina fosse in ansia. Ogni mattina tastava con la mano la fronte delle sue figlie: “Iè frèsche come le röse. Dio vede e Dio provvede”.[2]

Negli studi degli esperti si ipotizzò che quella pandemia fosse stata causata da un virus di tipo H1N1, interamente nuovo per l’umanità, simile a quelli dell’influenza aviaria, originatosi da un ospite animale rimasto sconosciuto. Infettò un terzo della popolazione mondiale, allora di quasi 2 miliardi, provocando circa 50 milioni di morti, in prevalenza bambini ed anziani, con un andamento per età ad U, ma corretto da un ulteriore picco di mortalità nelle età centrali degli adulti tra 25 e 44 anni. Nel nostro paese, allora di 37 milioni di abitanti, si valutano circa 600mila decessi, pari ai caduti della prima guerra mondiale che si stava concludendo.

Quella pandemia, probabilmente, ebbe il vantaggio, dal punto di vista del virus, di investire una popolazione mondiale in gran parte stremata da cinque anni di conflitto, denutrita e squassata dalle paure e dai lutti consumati nelle trincee. E se necessariamente lenta era la velocità di diffusione in un contesto di società contadine, radicate nel territorio e poco aduse agli spostamenti, scarsa o addirittura nulla era d’altro canto la capacità di contrasto delle strutture sanitarie dell’epoca.

La pandemia fece il suo corso, subita ed accettata dalla popolazione come una calamità naturale. Del resto la cultura contadina era abituata a convivere con la morte: mia nonna Marina per dare la vita a tre figlie dovette sopportare la perdita di altrettanti figli appena partoriti; in quel borgo di contadini a conduzione delle terre di tipo semifeudale, prima che il conte illuminato  provvedesse a progettare e realizzare un canale di irrigazione negli anni Venti del secolo scorso, una stagione siccitosa portava nelle case coloniche fame e in certi casi morte d’inedia.

Insomma, la morte era compagna  domestica della vita, accolta con una religiosità intensa e corale dall’intera comunità, e in casa si moriva come anche si nasceva.  

La mia asiatica

Dell’asiatica, invece, ho un ricordo personale nitidissimo e un tantino angoscioso: ero in quarta elementare, quando fui costretto a letto con un febbrone da cavallo; deliravo e la febbre, stabilmente oltre i 40 gradi, non voleva scendere nonostante le supposte di antipiretico ordinate dal medico condotto; ero scosso dai brividi, sotto la montagna di coperte in cui mi aveva avvolto mia mamma per tenermi al riparo dal freddo degli inverni veramente gelidi di quegli anni ante climate change, che ghiacciava i vetri della mia cameretta al primo piano, priva di riscaldamento, come tutta la casa, al di là del cuore caldo della cucina. Avevo una terribile paura di non farcela.

E invece mi andò bene, come in generale a tutti i bambini e giovani in salute infettati: infatti, in contrasto con quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone affette da malattie croniche e meno colpiti furono i soggetti sani. All’epoca il virus dell’influenza era stato isolato nell’uomo per la prima volta nel 1933 e poteva essere studiato in laboratorio. Il nuovo virus H2N2 si sviluppò in Cina in una popolazione di anatre selvatiche. Probabilmente a metà degli anni Cinquanta fece il “salto” nella specie umana, e per qualche tempo rimase confinato nel sud del paese. Poi una mutazione del virus si rivelò particolarmente aggressiva e il contagio iniziò a diffondersi fuori dalla regione dove si era originato. Il sottotipo del virus dell’asiatica del 1957 fu quindi identificato come un virus A/H2N2 e aveva diversi caratteri immunochimici che differivano marcatamente dagli altri ceppi fino ad allora conosciuti. Con l’asiatica, fu molto diffuso ed evidente il fenomeno di polmoniti primariamente virali – analogamente a quanto accade con l’attuale Covid-19 –, particolarmente insidiose, anche perché il sistema immunitario era del tutto impreparato a questo nuovo tipo di virus.

L’asiatica contagiò tra il 10 per cento e un terzo dell’intera popolazione mondiale, con 2 milioni di decessi stimati su 2 miliardi e 800mila abitanti del pianeta a quei tempi. In Italia contrasse la malattia un italiano su due, 26 milioni di persone, tra cui l’85 per cento della popolazione tra i 6 e i 14 anni. Con una mortalità stimata inferiore allo 0,2 per cento (cioè meno di 0,2 morti ogni cento persone contagiate), l’influenza asiatica era comunque ben più pericolosa di una normale influenza stagionale, che ha una mortalità in genere dello 0,01 per cento e solitamente viene contratta dal 10-15 per cento della popolazione. In Italia, le morti causate dall’asiatica furono stimate in circa 40mila.

In Italia la pandemia fu contrastata fondamentalmente con antipiretici somministrati agli ammalati a domicilio, ma anche con alcuni provvedimenti per frenare la velocità della diffusione del contagio, come, seppure per brevi periodi, la chiusura delle scuole in particolare nelle città dove l’influenza era più virulenta.

Sostanzialmente la pandemia seguì anche questa volta il suo corso, senza sconvolgere più di tanto una società ancora prevalentemente agricola, alle soglie del “miracolo economico”, in cui i ritmi, in particolare in inverno, erano naturalmente rallentati e dove le informazioni e le persone avevano una circolazione ancora molto rarefatta. Nella mia casa, dove mio padre e mia madre confezionavano gli zoccoli per i contadini locali, non c’era neppure la radio e di giornali non ne entravano. Del resto l’epidemia non ottenne mai un’attenzione da prima pagina da parte dei mezzi di informazione, nonostante il contagio avesse raggiunto persino la moglie del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. L’opposizione comunista accusò il governo guidato dal democristiano Adone Zoli di non aver affrontato adeguatamente l’epidemia e il quotidiano di partito L’Unità” scrisse che «si doveva e si poteva fare di più», da parte dell’Alto commissario per l’igiene e sanità. Si deve tener presente, per comprendere la situazione del sistema sanitario nazionale dell’epoca, che non esisteva ancora il Ministero della Sanità, diventato oggi della Salute, creato soltanto l’anno successivo. Comunque l’Alto commissario, il senatore trentino Angelo Mott, ammise alcuni errori iniziali, ma rassicurò sulla gravità della malattia. E utilizzò la neonata Rai, probabilmente per la prima volta nella sua storia allora solo triennale, per garantire ad alcune centinaia di migliaia di privilegiati spettatori, che «il decorso della malattia» era nel complesso «benigno» e che «non è il caso di allarmarsi».

A Brescia nell’occhio del ciclone pandemico da Covid-19

Mi sono dilungato su questa pur succinta ricostruzione storica perché mi pare di grande utilità per tentare una lettura di quanto sta succedendo con questa nuova pandemia, che, casualmente, sto vivendo in una delle città, Brescia, tra le più colpite al mondo, più della famosa Wuhan cinese da dove tutto sarebbe partito: qui il quotidiano locale pubblica ogni giorno una decina di pagine di necrologi, da cui si scoprono conoscenti che non ce l’hanno fatta; le bare vengono immagazzinate in attesa che si possano incenerire o tumulare; gli ospedali sono tutti al collasso e alcuni infettati, ormai, stanno morendo a domicilio e nei ricoveri per anziani e non vengono neppure conteggiati nelle statistiche; in questo quadro rappresentare come eroi gli operatori sanitari che affrontano spesso a mani nude il virus ricorda i fanti delle prima guerra mondiale mandati al macello per snidare il nemico dalle trincee, eroi involontari, ma sicuramente vittime.

Non mi soffermo sui caratteri del  Covid-19  e della pandemia in corso, che parrebbe aver in comune con le precedenti l’origine da una mutazione, con potenziale molto aggressivo e ad alta contagiosità, di un nuovo virus che ha compiuto il salto di specie, da un animale, in questo caso parrebbe un pipistrello, incontrando, quindi, un sistema immunitario umano del tutto impreparato.  Per il resto, sembra che il dibattito tra gli stessi esperti sia ancora molto aperto e lo stiamo seguendo con interesse, trepidazione e speranza.

Vi sono, invece, sul piano sociale delle novità “rivoluzionarie” rispetto alle pandemie novecentesche sopra evocate su cui mi vorrei soffermare.

Lasciare che il  virus faccia il suo corso?

Per la prima volta l’umanità sembrerebbe intenzionata a non permettere alla pandemia di fare il suo corso e vorrebbe  contrastarla attivamente, non dando per scontato che possa comportare un “naturale” numero di decessi. 

O se vogliamo essere più precisi, per la prima volta le istituzioni che governano le nazioni sono costrette a tentare un contrasto attivo degli effetti letali attesi in seguito alla pandemia.

Gli stessi governi, come nel caso della Gran Bretagna e dell’Olanda, che all’inizio sembravano orientati a lasciar correre la pandemia finché, infettando oltre la metà della popolazione, si fosse instaurata l’immunità di gregge, hanno dovuto, almeno in parte, ricredersi di fronte alla prospettiva di una quantità di decessi inaccettabili per l’attuale informatissima e impaurita opinione pubblica.

Anche in Italia si sono sentite alcune voci, in verità isolate, che riecheggiavano quell’ipotesi non interventista: quella piuttosto sguaiata di Vittorio Sgarbi  diffusa via Facebook e Youtube il 9 marzo, in cui ridicolizzava le restrizioni decise dal governo solo per tutelare «quei poveretti che prendono la polmonite, stavano male, sarebbero stati male comunque anche senza coronavirus del cazzo»;[3] quella nostalgica di Massimo Fini, «E se avessimo lasciato al Covid-19 di fare il suo corso, eliminando i più deboli e tenendo in vita i più robusti e adatti»;[4] o quella pensosa di Alessandro Baricco: «A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra le misure adottate ed il rischio reale… C’è un’inerzia collettiva dentro quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire… Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni di loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti  i suoi  figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?»[5]. Nel caso di Baricco va segnalata questa singolare rivalutazione, dai toni quasi dannunziani, del Novecento, e più segnatamente del periodo più tragico, l’«età della catastrofe», quando lo stesso autore, nell’articolo citato poco sopra, imputa le difficoltà che incontriamo nell’attuale gestione della crisi al fatto che verrebbe governata con la superata «razionalità novecentesca» invece che con l’innovativa «razionalità digitale», «l’intelligenza del Game», fondata su di «una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto».

Non si può non intravedere in controluce, in queste prese di posizione, una sorta di riflesso condizionato di una cultura “scientifica” che ha dominato per buona parte del secolo scorso canonizzata nell’eugenetica, ovvero nell’idea di politiche sociali tese a selezionare i più adatti per migliorare la razza umana, erroneamente da molti confinata tra gli orrori del nazismo, dimenticando che nacque nella civilissima e democratica Inghilterra, verso la fine dell’Ottocento, ad opera di Francis Galton, cugino di Darwin, che spopolò nel mondo anglosassone e negli Usa e che per buona parte del Novecento fu praticata con convinzione fino agli anni Settanta dalle evolute socialdemocrazie dell’Europa del Nord.[6]

È giusto contrastare l’epidemia e salvare vite evitando morti premature

Ebbene, al di là di un dibattito filosofico e antropologico controverso sul rapporto dell’umanità contemporanea con la morte, credo che sia cosa buona e giusta, segno di un più elevato livello di civiltà, il fatto acquisito di un’opinione pubblica che pretende un assetto della convivenza sociale in grado di compiere tutto il necessario per tutelare lo stato di salute della popolazione, prevenendo ed evitando il più possibile decessi prematuri, addirittura come priorità assoluta.

Certo, in questa nuova consapevolezza ha assunto un ruolo, suscettibile di legittimo dibattito, lo smarrimento, in gran parte irrisolto, di quanti, spesso liberatisi dalle confortevoli certezze nell’al di là offerte dalle religioni, sembrano incapaci di accettare serenamente la morte dentro il ciclo della vita e, quindi, sono sopraffatti dalla paura. Una paura che rischia di diventare isteria collettiva, anche a causa dell’ossessionante e quotidiana ostentazione della sofferenza da parte del debordante sistema informativo, tenuta, ahimè, sotto controllo prevalentemente dagli psicofarmaci. 

Ma non c’è dubbio che la rivoluzione che stiamo vivendo, nonostante la drammaticità e le evidenti contraddizioni e insufficienze, segni una svolta straordinariamente positiva nella storia dell’umanità, che per la prima volta decide di contrastare il corso naturale della pandemia per salvare vite ed evitare morti premature.

E questa svolta non è solo il risultato della ricerca scientifica, ma anche, se non soprattutto, il frutto delle lotte sociali della seconda metà del secolo scorso, per l’Italia, della riforma sanitaria del 1978, che al primo capoverso recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana».

Mi sembra importante sottolineare questa novità storica, a maggior ragione in un momento in cui tutto sembra oscurarsi. Senza per questo ignorare le inaccettabili mancanze e le pesanti inadeguatezze che stiamo mostrando in questa giusta battaglia contro il virus.

Ciò che non ha funzionato

Non c’è dubbio, che in particolare in Italia e nel mondo occidentale, in un contesto di globalizzazione neoliberista spinta, ci siamo trovati impreparati ad ingaggiare con efficacia questa battaglia che, abbiamo visto, era ed è inevitabile combattere.

Abbiamo scontato, rispetto alle esperienze passate, quello che è (era?) il punto di forza della globalizzazione, la circolazione, a velocità ed in dimensioni parossistiche, delle persone, delle merci delle informazioni. Se queste ultime possono essere risultate utili nell’allertare l’opinione pubblica, le altre, da un canto hanno velocizzato come non mai la diffusione rapida del virus da un capo all’altro del pianeta, dall’altro hanno reso tardive e per troppo tempo incerte quelle necessarie e traumatiche decisioni di distanziamento delle persone e di confinamento domiciliare, per il fondato timore di un collasso totale di un sistema sociale ed economico mondiale, appunto fondato sulla rapida ed illimitata mobilità di merci e persone. Insomma la globalizzazione si è presentata come una trappola da cui effettivamente è risultato alquanto difficile liberarsi.

L’altro punto di debolezza va, a mio parere, individuato nelle armi in parte spuntate messe in campo per tutelare efficacemente la salute dei cittadini (presidi sanitari ospedalieri e territoriali inadeguati, per mancanza di dispositivi per la protezione individuale, posti letto, strumentazione per l’emergenza e la respirazione assistita, personale qualificato, laboratori per i test…).

È stato detto che ciò dipende dall’aver tagliato gli investimenti pubblici nella sanità, in omaggio alle politiche di aggiustamento di bilancio; dall’aver foraggiato in maniera dissennata le imprese sanitarie private a scapito del patrimonio pubblico; dall’aver regionalizzato un servizio che doveva rimanere nazionale, alimentando corruzione e clientelismo…

Tutto vero. A me pare, però, che la causa sia più profonda e vada individuata nella presunzione della modernità capitalista di ridurre la natura, la biosfera, alla dimensione della gigantesca protesi esosomatica creata dall’uomo, la cosiddetta tecnosfera. Come questa, in quanto prodotto artificiale, è ritenuta con qualche ragione perfettamente misurabile, programmabile, prevedibile e governabile, così, da parte di una tecnoscienza presuntuosa e asservita al sistema, si è pensato di poter includere nello stesso paradigma anche la natura.

Così le strutture deputate alla tutela della salute e alla cura sono state negli ultimi decenni ridefinite sul modello delle aziende che producono automobili: anche negli ospedali si è affermato il toyotismo del just in time, che prevede l’azzeramento delle scorte e dei magazzini, lo sfruttamento massimo degli impianti con la riduzione del personale e la dismissione di macchinari, ovvero di letti e apparecchiature, sottoutilizzati. L’aziendalizzazione non è stata solo un’operazione nominalistica, ma sostanziale: la cura di un corpo, un organo, un batterio o un virus è stata assimilata alla costruzione di un’automobile e l’efficienza è stata misurata nel rapporto tra costi (quindi posti letto, scorte di magazzino, personale, apparecchiature…) e prestazioni e questo rapporto, incentivato con premi ai dirigenti anche nel pubblico, si è preteso di programmare sulla base di algoritmi lineari assimilabili all’andamento di mercato previsto per le automobili.

Con questa impostazione ovviamente ci si è trovati disarmati di fronte all’imprevedibilità e non programmabilità della natura, di una biosfera che sa sempre sorprenderci nel bene o nel male.

Nella prevenzione secondaria, in sostanza, non si è contemplato un evento eccezionale come una severa pandemia, semplicemente perché incompatibile con il modello di aziendalizzazione che si è imposto negli ultimi decenni. Clamorosa, a questo riguardo, la situazione dei letti per terapie intensive, come rilevato dall’Oms negli ultimi 40 anni: l’Italia si è trovata ad affrontare l’emergenza con 275 letti per 100mila abitanti, rispetto ai 621 della Germania; ma il nostro paese, dopo il varo del Sistema sanitario, nel 1980, ne aveva ben 922.[7]

La sanità lombarda in questo senso ha fatto scuola. Per quanto riguarda Brescia, va aggiunto che probabilmente l’alta incidenza degli esiti fatali della pandemia dipende in parte anche da carenze strutturali nella prevenzione primaria, cioè in quelle condizioni ambientali che dovrebbero favorire il mantenimento dello stato di salute dei cittadini. Si è letto che studi compiuti nel corso della vicenda cinese avrebbero evidenziato una fragilità tre volte superiore nei confronti del virus da parte di soggetti grandi fumatori,[8] come del resto si ripete che i decessi interessano prevalentemente soggetti indeboliti da altre patologie, in particolare polmonari. Brescia, come buona parte della Pianura Padana, registra spesso record negativi per la cattiva qualità dell’aria[9]. Uno studio dell’Ats di Brescia sugli effetti a breve delle PM10 nell’aria, valutava nel 2015 che ad ogni incremento di 10 microgrammi per metro cubo di PM10 (e Brescia nei periodi critici supera ampiamente e stabilmente i 50 microgrammi) aumentano i ricoveri per problemi respiratori del 3,9 per cento,[10] mentre una recente pubblicazione dell’Inail sull’incidenza delle malattie professionali nei Siti inquinati di interesse nazionale, nel sito di Brescia segnalava per i tumori maligni dell’apparato respiratorio e degli organi intratoracici un’incidenza del 17,2 per cento rispetto ad una media dei territori del Nord-Ovest del 5,3 per cento e per le malattie delle basse vie respiratorie un’incidenza, sempre per Brescia, del 9,4 per cento contro l’1,1 per cento del Nord-Ovest.[11]

Invece, la diffusione così importante del virus sembra dipendere da diversi fattori: oltre all’alea del caso avverso, probabilmente ha inciso la tardiva rilevazione da parte dei presidi di igiene sanitaria della presenza del virus nel territorio forse già circolante da due mesi, quindi le gravi carenze strutturali della prevenzione secondaria lombarda (insufficienza dei tamponi e dei test, mancanza gravissima dei DPI anche nei presidi ospedalieri diventati grandi fonti di contagio, per cui ancora a fine marzo i medici di base sono privi di guanti, mascherine, tute…) e infine la resistenza, in nome del profitto e della cultura del lavoro, del sistema produttivo locale, fatto di piccole e medie aziende, ad accettare il blocco, ad eccezione dei settori davvero essenziali, mantenendo in circolazione, senza DPI adeguati, centinaia di migliaia di operai.

Per ultimo, a me sembra che il virus abbia messo a nudo clamorosamente la grande illusione sulle promesse dalla globalizzazione neoliberista. Il mito della “società aperta” senza confini, basata su più mercato e meno Stato, casa accogliente dell’intera umanità, si è infranto miserevolmente di fronte allo scatto di solidarietà universale che la pandemia avrebbe richiesto, rivelando la sua essenza di sistema asservito agli interessi della grande finanza, del famoso un per cento di superprivilegiati. E, così, abbiamo dovuto tutti affidarci a quel poco di Stato rimasto in piedi e guardare con terrore a come l’osannato mercato speculava sulle nostre disgrazie sfasciando un’economia già disastrata.

Improvvisamente, perfino nell’Ue ed in spregio a norme condivise, sono state ripristinate le frontiere, sono state bloccate dalle singole nazioni stock di materiali già acquistati dall’Italia ed indispensabili per affrontare l’emergenza. E Brescia, con la sua miriade di imprese, tra cui eccellono quelle che producono armi, ha scoperto di non produrre ventilatori ed altre attrezzature sanitarie fondamentali per la sicurezza e la salute della popolazione, vuoto registrato peraltro nell’intero paese. E gli aiuti, paradossalmente, ci sono arrivati, oltre che dalle dileggiate Ong, da nazioni e popoli a lungo vituperati, la Cina, la Russia, le piccole Cuba e Albania, tutti estranei al grande Occidentale, alla Nato, che ci avevano spiegato essere fondamentale per la nostra sicurezza, alla (fu?) Ue.

Brescia, mentre versa oggi in uno stato pietoso, da paese sottosviluppato, per quanto riguarda le proprie strutture impegnate nella battaglia contro il virus, ha buttato decine di miliardi per costruire infrastrutture pressoché inutili in omaggio alle esigenze improcrastinabili di mobilità indotte dalla globalizzazione: l’aeroporto di Montichiari, poi di fatto abbandonato perché schiacciato dalla vicinissima concorrenza di Orio al Serio di Bergamo e del Catullo di Verona; la seconda autostrada per Milano, BreBeMi, largamente sotto utilizzata; ed ora il Tav per Venezia, ovvero miliardi di euro per raggiungere le altre città della Lombardia orientale impiegando una manciata di minuti in meno.

Erano davvero queste le priorità per questo territorio oppure, sprecando molto meno denaro pubblico, mantenere letti e apparecchiature di riserva, nonché stock di materiali e personale preparato per fronteggiare un’eventuale epidemia e, magari, ridurre drasticamente l’inquinamento ambientale e nei luoghi di lavoro?

Qualche lezione sapremo apprenderla?      

Di fronte a questo interrogativo potrei cavarmela citando la conclusione condivisibile di una riflessione che mi ha mandato l’amico Pier Paolo Poggio: «Un futuro potrà esserci solo ripartendo dall’essenziale, dall’ibridazione che si sta realizzando, sotto estrema costrizione, tra ecologia e tecnologia, avendo come meta la dignità individuale e la solidarietà sociale, il pluralismo culturale e l’universalismo politico».

Questo è sicuramente l’orizzonte che ci deve guidare, con la lucida consapevolezza che non sempre l’umanità ha saputo apprendere le lezioni della storia. C’è una grande incognita all’orizzonte: superata l’emergenza sanitaria e la paura di morire, come reagirà  l’opinione pubblica di fronte alla grave depressione economica? Non è detto che invece di fare i conti con la “natura matrigna”, che sa essere amica dell’uomo come altrettanto nemica, anche per effetto dei nostri insensati maltrattamenti, come ci insegnava Leopardi, si produca invece un ulteriore scatto in avanti nella volontà di artificializzazione e riduzione della biosfera all’interno della tecnosfera, in un’ancor più vorticosa espansione, scontando possibili incidenti di percorso imprevedibili e comunque non prevenibili, se non a costo di bloccare la “megamacchina” dello sviluppo.

Del resto, a ben vedere, l’umanità ha accettato e accetta quotidianamente migliaia di morti “invisibili” a causa della denutrizione, delle guerre per il controllo delle fonti energetiche, dell’inquinamento diffuso, non a caso definito in un importante studio scientifico pubblicato nel lontano 2006 dalla rivista “The Lancet” pandemia silenziosa.[12] Ci si potrebbe chiedere: perché ora di fronte a qualche migliaia di decessi, come dice Baricco, si assumono provvedimenti così sproporzionati, durissimi per le abitudini di vita consolidate e ancor più pesanti per un domani di disastrosa depressione economica?

Una spiegazione, credo, ci viene offerta da Laura Conti che in un suo saggio di diversi anni fa[13] rifletteva sulla difficoltà di far comprendere gli effetti negativi sulla salute dell’inquinamento industriale. Il problema è che in questo caso non siamo più di fronte alle patologie infettive tradizionali, prodotte da un batterio o da un virus facilmente individuabile come causa diretta e – si pensava – suscettibile di essere debellato, ma a quelle patologie cronico-degenerative (cardiovascolari, diabete, tumori…) che hanno molteplici origini (ereditarietà, stili di vita, inquinamento…) e la cui eziologia viene ricostruita con indagini di tipo statistico-epidemiologico. Si tratta in sostanza di una sorta di rumore di fondo che si accetta come componente inevitabile dello sviluppo. Il Covid-19, invece, ha sconvolto questa nostra ormai consolidata convivenza con la malattia e la morte e ci ha traumaticamente riportato indietro ad una realtà di inaccettabile e visibile rapporto tra la morte ed un determinato agente patogeno che, incredibile, non si riesce a debellare.

Ebbene, credo che questa traumatica esperienza possa essere di lezione se sapremo, anche domani, quando dovremo fare i conti con la durezza della depressione economica, mantenere fermo il principio che la salute è un bene primario irrinunciabile e che fu giusto bloccare la megamacchina per salvare vite ed evitare morti premature. Anzi, la lezione sarà totalmente appresa, se questo principio lo sapremo applicare anche per le “pandemie invisibili”, quelle della patologie croniche degenerative prodotte dall’inquinamento, quelle indotte dalla malnutrizione in cui è costretta una parte dell’umanità, quelle prodotte dall’insensata pulsione distruttiva dell’uomo capace di scatenare ancora guerre contro popolazioni inermi per un barile di petrolio.

Va da sé che ne dovrebbe conseguire un capovolgimento delle politiche fin qui seguite nell’Occidente della globalizzazione neoliberista. Solo per esemplificare, alcuni temi da affrontare: meno mercato e più Stato; riconduzione della finanza, della moneta e delle banche al servizio del bene comune; priorità alla ricostruzione di un rapporto rispettoso con la natura, non più di rapina e riduzione ai meccanismi artificiali della megamacchina costruita dall’uomo; centralità della prevenzione primaria e secondaria da parte di un Sistema sanitario pubblico, capace di tutelare la salute delle persone e fronteggiare anche eventi eccezionali, ma comunque sempre naturali, come la presente epidemia; deglobalizzazione del sistema, riducendo la circolazione delle merci e degli uomini (non delle informazioni) allo stretto e ragionevole indispensabile; dotare i territori ed i popoli dei presidi  fondamentali per garantire la sicurezza alimentare, l’approvvigionamento idrico, l’istruzione e la ricerca scientifica, la tutela della salute anche in situazione di emergenza, l’energia all’insegna del risparmio e delle vere rinnovabili, l’abitazione e la messa in sicurezza del territorio, finalizzando a tutto ciò risorse pubbliche oggi sprecate negli armamenti o in infrastrutture che rispondono solo ad un artificiosa domanda creata da quella globalizzazione che ci ha così duramente prostrati; garanzia di un lavoro e  un reddito dignitoso per tutti.

Infine imparare ad uscire, come diceva il grande Giorgio Nebbia, dalla società dell’abbondanza, insostenibile, per quella, auspicabile, dell’abbastanza. Ed in questi giorni ci stiamo adattando tutti all’abbastanza. Chissà che questo duro allenamento ci possa servire per reinventare il nostro futuro.                                                                                                                                                                                   

 

[1] In realtà vi sarebbe anche la l’influenza pandemica Hong Kong del 1969, ma mi pare meno significativa rispetto all’attuale emergenza. Le informazioni utilizzate per la spagnola e l’asiatica sono attinte a queste fonti: https://www.epicentro.iss.it/passi/storiePandemia; https://www.ilpost.it/2020/03/08/pandemie-italia-asiatica-hong-kong/

[2] M. Ruzzenenti, Le donne della Casèlô, Ass. culturale presentARTsì, Castiglione delle Stiviere (MN) 2013, p. 9.

[3] https://www.youtube.com/watch?v=hUYJ3pkQ7RU

[4] M. Fini, Vista la realtà, nascono pensieri torbidi sul virus, “Il Fatto Quotidiano”, 21 marzo 2020.

[5] A. Baricco, Virus. E’ arrivato il momento dell’audacia, “La Repubblica”, 26 marzo 2020.

[6] L. Dotti, L'utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975: il programma socialdemocratico di sterilizzazione, aborto e castrazione, Rubettino, Saveria Mannelli (Cz) 2004.

[7] https://gateway.euro.who.int/en/indicators/hfa_478-5060-acute-care-hospital-beds-per-100-000/visualizations/#id=19535&tab=table

[8] https://www.humanitas.it/news/25792-coronavirus-rischi-fumatori

[9] http://www.ambientebrescia.it/aria.html

[10] https://www.ats-brescia.it/documents/3432658/8477606/Polveri+sottili+ed+effetti+a+breve+termine+sulla+salute+nell%E2%80%99ASL+di+Brescia.pdf/080ce991-4423-9066-f846-576d74af41fb

[11] Inail, Le malattie professionali nei siti di interesse nazionale per le bonifiche (Sin), 2019, pp. 81-82.

[12] P. Grandejean, P.J. Landrigan, Developmental neurotoxicity of industrial chemicals, www.thelancet.com, 8 november 2006.

[13] L. Conti, Questo pianeta, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 166-168.



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