Una mano ci risolleva
LA PAROLA
Gesù stava ancora parlando, quando arrivò uno dalla casa del capo della sinagoga e disse: “Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro”. Ma Gesù, avendo udito, rispose: “Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata”. Giunto alla casa, non permise a nessuno di entrare con lui, fuorché a Pietro, Giovanni e Giacomo e al padre e alla madre della fanciulla. Tutti piangevano e facevano lamento su di lei. Gesù disse: “Non piangete. Non è morta, ma dorme”. Essi lo deridevano, sapendo bene che era morta; ma egli le prese la mano e disse ad alta voce: “Fanciulla, alzati!”. La vita ritornò in lei e si alzò all’istante. Egli ordinò di darle da mangiare. I genitori ne furono sbalorditi, ma egli ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto (Lc 8,49-56).
Un padre angosciato che riesce a convincere Gesù ad andare a casa sua per guarire la figlia in pericolo di morte. Una donna affetta da perdite di sangue trattiene il Maestro e gli strappa un miracolo non richiesto. Il tempo corre e il dramma si consuma. Mentre sta ancora parlando, giungono dalla casa di Giairo per dare la notizia temuta. La figlia è morta, perché disturbare oltre il Maestro?
Il racconto ad incastro è costruito ad arte. Perché quel ritardo? Perché Giaro non ha protestato, non ha strattonato Gesù e se l’è trascinato via? Noi, al colmo della disperazione, l’avremmo fatto. Forse perché Giairo, e noi con lui, doveva capire qualcosa che altrimenti non avrebbe mai capito.
Una volta sopravvenuta la morte, a che serviva ancora Gesù? Era convinto che avrebbe potuto curare una malattia seppure così grave, ma che i suoi poteri taumaturgici si sarebbero infranti davanti alla morte. Gesù si rivolge a Giairo invitandolo a non temere e ad avere fede. Sua figlia si sarebbe “salvata”. Sono le parole che aveva appena detto alla donna dell’emorragia, solo che lì non erano un invito a credere, bensì il riconoscimento di una fede intrepida che lei non aveva mai perso.
Quella fede non solo aveva guarito il suo male, l’aveva salvata, l’aveva introdotta nella pace, nello shalôm, la vita piena che viene da Dio. Ecco cosa doveva vedere e capire Giairo! Quella donna avrebbe potuto insegnargli che si può sperare contro ogni speranza, che la fede non è un dono gratuito, accumulabile nel tempo, è l’atto di responsabilità più radicale dell’esistenza: fidarsi di Qualcuno convinti che non deluderà. “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”, troviamo nella versione di Marco (5,28). E più alta è l’asticella dell’impossibile, più elevata è la possibilità del dubbio, la tentazione di arrendersi, di non tentare o non credere più nulla.
I pianti e i lamenti funebri sono lì a testimoniare che davanti alla morte non c’è ormai più nulla da fare se non disperarsi. Non c’è via di ritorno. Anche qui, come a Naim, Gesù pronuncia un imperativo che è dei più dolci e consolanti che troviamo nel Vangelo: “Non piangete!”. Di solito gli imperativi ci danno fastidio. Questo no. Giunge come balsamo sul cuore in frantumi dei genitori della fanciulla, sugli occhi che piangono la scomparsa dei loro cari, come tanti in questi tempi. Gesù ricostruisce accanto a quel corpicino freddo e inerte il calore di una comunità: lui, Pietro, Giacomo, Giovanni, il padre e la madre. Intorno a loro c’è il sarcasmo della gente. Si fa presto a passare dal pianto alla burla. Che prove si possono offrire della fede che oltrepassa la morte?
Gesù prende per mano la fanciulla e dà un altro ordine: “Alzati!”. Non è morta, dorme. Torna la vita, come quando ci si risveglia da un incubo. È tempo di mangiare. La morte è stata solo un’assenza momentanea. La porta non s’è chiusa per sempre, chi entra può uscire. Non da soli però. Una mano deve venire a risollevarci e a condurci.