Pastori non pettinatori di pecore
Nel 2013, durante l’udienza generale di apertura al Convegno Ecclesiale della diocesi di Roma, papa Francesco coniò quest’espressione: “pastori non pettinatori di pecore”.
L’immagine del pastore e del gregge non ha grande rilevanza nella nostra cultura, ma in quella ebraica esaltava un rapporto prezioso e vitale. Il pastore aveva una cura estrema delle proprie pecore perché, senza di esse, sarebbe morto, visto che rappresentavano l’unico suo mezzo di sussistenza. Partendo dalla parabola del Buon Pastore, il Papa ricordava che, nel testo, si vede un pastore preoccupato per la mancanza di una pecorella all’appello e in partenza per la sua ricerca. Se riportiamo il testo ai giorni nostri e nelle nostre comunità, si vede come la situazione sia rovesciata. Il Papa faceva notare che sono 99 quelle che mancano all’appello e il pastore è rimasto solo con una nell’ovile. Per cui, oggi, noi come pastori, dovremmo essere spronati ad uscire non solo per cercare quell’una che potrebbe sempre smarrirsi, ma soprattutto le altre 99 “smarrite”.
Non è sempre così perché, di fatto, spesso il pastore è fermo nell’ovile e ha cura dell’unica pecora rimasta. Questa è la situazione descritta da papa Francesco: la trasformazione del pastore in pettinatore di pecorelle. Pettinarla significa fare la sua volontà, starle accanto, compiacerla sempre, quasi per la paura di perderla, visto che è l’unica rimasta. Il pastore non è più una guida, quindi, perde la sua identità e diventa un pettinatore. Cosa deve fare il vero pastore? Il pastore è chiamato ad uscire sia in senso geografico, spostando le pecore alla ricerca di pascoli più ricchi, sia nella sua azione evangelizzatrice, cercando nuove vie rispetto alle solite, proposte alla propria comunità.
È un’impresa difficile perché prevede un cambiamento di mentalità sia per chi guida il gregge, ma soprattutto per il gregge stesso. Spesso, le poche persone rimaste in parrocchia fanno fatica a cambiare il loro modo di essere cristiani che, in realtà, dovrebbe tendere sempre all’evoluzione, un po’ come ci suggerisce il ritornello di una canzone di Fiorella Mannoia: “… come si cambia per non morire, come si cambia per ricominciare…”. È inevitabile che fare il pastore oggi comporti un cambiamento, sia rispetto alle prassi pastorali consolidate, sia all’uso delle strutture a disposizione.
Molte volte il pastore, nella sua operazione di scouting, cioè esplorando e aprendo nuove vie, non avrà tutti con sé. C’è chi ha il coraggio di seguirlo e chi si tira indietro o addirittura ostacola il suo lavoro. Questo impegno è spesso sottovalutato durante la preparazione dei pastori. Peccato.
Non ha avuto vita facile neppure il Maestro e chi lo segue non può, certamente, aspettarsi un trattamento migliore. Ma è dovere comunque del pastore camminare, andare, uscire, perché restare fermo porta a conseguenze pericolose.
La comunità che si chiude nel suo piccolo cerchio, infatti, si ammala ed è destinata a morire in tempi più o meno brevi. Nell’uscire, nel camminare ci si può anche far male, si può sbagliare percorso, ci si può inciampare o perdere ma, nonostante tutto, è più salutare muoversi che restare fermi.