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PAPA FRANCESCO IN CILE - UN VIAGGIO DIFFICILE

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Quello in Cile è stato per papa Francesco un viaggio difficile. E per valutarne appieno gli esiti bisognerà lasciar passare un po’ di tempo.

Certo, alcuni segnali sono stati chiari: la visita alla tomba di mons. Enrique Alvear, ausiliare di Santiago e “vescovo dei poveri”, a proseguire il riscatto di quei settori ecclesiali decisamente schierati a favore del cambiamento sociale e del rinnovamento della Chiesa, e per questo non sempre visti di buon occhio dal potere politico e dagli apparati ecclesiastici, e l’incontro coi familiari delle vittime della dittatura del generale Augusto Pinochet, a confermare il suo rifiuto dei regimi militari e la sua vicinanza a quanti hanno visto i propri cari uccisi o fatti sparire.

Tuttavia al centro della visita non potevano che essere la questione mapuche e il dramma degli abusi su minori a opera di ecclesiastici, col corollario del conflitto apertosi nella Chiesa cilena in seguito alla nomina di mons. Juan Barros alla guida della diocesi di Osorno nel 2015.

E proprio su questi terreni il bilancio della visita appare più incerto. A Temuco, infatti, papa Francesco ha sottolineato che “l’unità non è un simulacro né dell’integrazione forzata né dell’emarginazione finalizzata a produrre armonia”, ma è “una diversità riconciliata perché non tollera che in nome dell’unità si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie”.

Questa unità va costruita “a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà”, per cui non la si può raggiungere né con “accordi che mai arrivano a concretarsi” né con “la violenza” che “finisce per rendere menzognera la causa più giusta”. Parole ineccepibili, che però ad alcuni leader mapuche sono apparse generiche, soprattutto perché non accompagnate da alcun cenno alle rivendicazioni indigene sulle terre espropriate loro dallo Stato cileno e al persistere di atteggiamenti coloniali nella Chiesa.

Ma più scalpore ha suscitato l’esplicita difesa di mons. Barros fatta da papa Francesco, che ha definito “calunnie” le accuse di aver coperto gli abusi sessuali compiuti da p. Fernando Karadima, di cui era stato discepolo e stretto collaboratore. Il papa è parso sinceramente convinto di questo giudizio, che tuttavia contrasta con quello della maggioranza dell’opinione pubblica cilena, anche nella Chiesa, che ha ripetutamente chiesto a mons. Barros di dimettersi.

È dunque comprensibile che Francesco non possa contraddire la propria coscienza dopo aver “studiato e ristudiato” il caso, come ha affermato, anche se non risulta che abbia mai ascoltato quelle vittime di p. Karadima che hanno accusato mons. Barros di esserne stato complice.

La ferita, nella società e nella comunità ecclesiale, sembra lungi dal rimarginarsi.



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